Lussemburgo, dicembre 2024. “ultimamente sto cercando di rilassarmi guardando film dell’orrore, mi distrae dal pensare alle elezioni in Romania”. Queste parole di una funzionaria europea a Lussemburgo, riassume il senso di sgomento della comunità romena all’estero.
Il tema inspiegabilmente pare ignorato in Italia, eppure, “la diaspora” rumena (con questo termine drastico viene definita l’emigrazione rumena nel mondo) vede nell’Italia il primo paese di sbocco: dei quasi 6 milioni di rumeni che vivono all’estero, 1 milione infatti vive in Italia, costituendo tra l’altro la principale nazionalità straniera residente. Appare chiaro quindi che ciò che succede a Bucharest non può non interessare Roma.
Ma veniamo ai fatti:
Il candidato ultranazionalista Călin Georgescu, fino a un mese fa un ignoto burocrate specializzato in economia agraria, risulta il più votato al primo round dele elezioni presidenziali del Paese. Grande amante della Russia di Putin, estremamente critico verso l’Europa e la NATO, supporter di Trump e della fine degli aiuti all’Ucraina. Al secondo posto risulta accedere al ballottaggio (su questo il sistema presidenzialistico rumeno a due turni, è simile al modello francese), la candidata di centro-destra Lasconi, fuori dai giochi, per la prima volta dalla caduta dell’unione sovietica, i candidati di centro-sinistra.
La vittoria clamorosa dell’outsider anti-establishment viene da subito circondata da dubbi su chi fosse dietro il finanziamento della sua campagna: nonostante servano soldi anche per organizzare una festa in parrocchia infatti, il Georgescu ha dichiarato di avere speso zero per la sua campagna, e che il suo supporto venga da “una chiamata” alludendo al divino. D’altronde non era nuovo ad uscite strizzanti l’occhio agli ambienti del deep fake e complottismo, visto che nel 2020 si distinse affermando che “il covid non esiste, nessuno ha davvero quel virus”, e che “l’unica scienza è Gesù Cristo”.
Nel frattempo, una settimana dopo le presidenziali, la Romania ha affrontato le legislative, domenica 1° dicembre, ma a due settimane dalle presidenziali, la corte suprema rumena ha decretato l’annullamento del primo turno delle presidenziali per ingerenze russe sul processo di voto. L’accusa è che delle campagne eterodirette online sui social media, come Facebook e Tik Tok, abbiano costruito consenso ed influenzato l’opinione pubblica rumena spingendo alla vittoria di quello che appare una marionetta putiniana, con il chiaro intento di sferrare il colpo di grazia all’Unione Europea.
Mentre scriviamo non è affatto chiaro se verranno di conseguenza annullate anche i risultati delle legislative. Sicuramente campagne di fake news ci sono state secondo documenti dell’intelligence rumena[1], tuttavia la decisione della Corte porta il Paese verso un sentiero mai esplorato da una democrazia occidentale.
La Romania costituisce un alleato indispensabile della NATO (leggi Stati Uniti) sul fronte orientale, con le basi militari statunitensi sulle coste del mar nero, a distanza oculare dalla Russia. Dichiarare illegittime delle elezioni perché le vince un candidato eterodiretto dalla Russia appare destabilizzante, eppure non ci si scompone mai quando sono gli Stati Uniti a dettare la lista dei ministri al governo Meloni[2], né sconvolge che Israele abbia speso oltre 100milioni di dollari per supportare le campagne elettorali americane, col risultato che dei 384 candidati sionisti al congresso, solo 4 abbiano perso le primarie americane[3].
Non sarà affatto facile per la Romania convincere che il problema non è stato tanto quello di aver votato per un pericoloso complottista fascistoide, quanto quello di non aver votato qualcuno non compiacente all’occidente. La mossa della Corte suprema appare una barriera fragile alle praterie di populismo che questa mossa potrebbe innescare.
Queste elezioni rumene non solo entreranno nella storia ma dovrebbero servire da monito, alle cancellerie occidentali, che per combattere la demagogia populista (che per intenderci ha matrice comune con quella che ha portato Trump a due vittorie elettorali), bisogna lavorare alle radici del problema, e questo richiede uno sforzo maggiore del semplice bannare TikTok, altrimenti la cura al populismo diventa più pericolosa del male che vuole combattere.