A quasi due anni dall’insediamento dell’attuale governo, il bilancio sulle politiche intraprese dalla prima premier donna del nostro Paese a sostegno delle altre donne appare, purtroppo, negativo.
Partiamo da un fenomeno che non accenna a diminuire: la VIOLENZA CONTRO LE DONNE.
Il governo ha inasprito le leggi del Codice Rosso, ma nulla o quasi è stato fatto in ottica di prevenzione. Una mancanza tanto più grave se si considera che, laddove un fenomeno ha profonde radici culturali, visto che, secondo il Gender social norm index delle Nazioni Unite, il 61% della popolazione italiana ha pregiudizi contro le donne e il 45% crede che esistano condizioni in cui la violenza fisica, sessuale e psicologica del partner sia giustificabile, le leggi da sole non arginano il problema.
Sono quasi 7 milioni le donne italiane che hanno subito una forma di violenza. Più di 2 milioni hanno subito stalking e milioni sono le vittime di abusi psicologici ed economici. A questi numeri non si può rispondere solo con leggi che intervengono quando il reato è già stato commesso, men che mai con massicci tagli ai fondi destinati ai centri antiviolenza o con trenta ore facoltative ed extracurricolari per studenti e studentesse delle scuole superiori secondarie.
Lo ribadisce anche il rapporto di ActionAid, La miopia della politica italiana nella lotta alla violenza maschile contro le donne, dove si sottolinea non solo il drastico taglio ai finanziamenti fatti dal governo Meloni, ma anche l’inconsistenza degli obiettivi degli investimenti, che puntano esclusivamente alla repressione, lasciando un enorme e pericoloso vuoto in ottica di prevenzione ed educazione, uniche armi per giocare d’anticipo e sradicare i comportamenti sociali indirizzati alla violenza contro le donne.
Come si legge nel già citato rapporto di ActionAid: “Pressoché assente è una strategia di prevenzione di medio e lungo periodo che agisca sulla diffusa cultura patriarcale e maschilista del Paese, che produce discriminazioni e violenza contro bambine, ragazze e donne. Le misure adottate dal governo Meloni per il contrasto alla violenza contro le donne sono importanti, ma – in base alla Convenzione di Istanbul – gli Stati hanno anche l’obbligo di adottare norme e misure per promuovere cambiamenti nei comportamenti socioculturali per eliminare pregiudizi, costumi, tradizioni e pratiche basate sull’idea dell’inferiorità della donna o su modelli stereotipati dei ruoli delle donne e degli uomini”.
Il che, tradotto in misure concrete, significa che c’è bisogno finanziamenti strutturali per le azioni di prevenzione, campagne massicce di informazione e comunicazione, formazione adeguata e strutturale nelle scuole attraverso personale qualificato, sin dai banchi delle primarie.
Va ricordato, a tal proposito, che a maggio dello scorso anno Lega e Fratelli d’Italia si sono astenute sul voto alla Convenzione di Istanbul, adducendo giustificazioni legate alla volontà di contrastare l’ideologia gender.
Nella lotta alla violenza contro le donne, sebbene la parola prevenzione abbia un impatto di gran lunga minore rispetto a parole più potenti, come punizione e pena, è proprio da questa che dobbiamo partire, se vogliamo evitare di accingerci alla vana impresa di svuotare il mare con un secchiello.
C’è un’altra lacuna nelle politiche del governo Meloni in favore delle famiglie (non solo delle mamme, visto e considerato che l’argomento figli coinvolge, o dovrebbe coinvolgere, entrambi i genitori). Parliamo degli ASILI NIDO. Il governo Meloni ha portato a 150.480 il numero di nuovi posti di asilo nido e scuola dell’infanzia, contro l’iniziale quantificazione del PNRR di 264.480 posti. Troppo pochi per stare al passo con l'Europa, ma anche per incentivare la natalità (stella polare di questo governo) e per consentire alle donne di conciliare maternità e lavoro. Di fatto, questa situazione ricorda un cane che si morde la coda: meno asili nido significa meno donne che lavorano, e meno donne che lavorano significa meno soldi in famiglia, il che si traduce spesso con la scelta di non fare figli, con buona pace dei desiderata di questo governo.
E, a proposito di natalità, parliamo di ABORTO, precisando subito che l’interruzione volontaria di gravidanza nulla ha a che fare con il fenomeno della denatalità del nostro Paese, considerando che il tasso di abortività in Italia (pari a 5,3 per 1.000) è tra i più bassi a livello internazionale. Ciononostante, il governo Meloni ha ritenuto opportuno intervenire a gamba tesa su uno dei capisaldi dell’emancipazione femminile, la Legge 194, sebbene il diritto all’aborto nel nostro Paese sia reso già di difficile attuazione da una legge inapplicabile in molte regioni d’Italia a causa dell’obiezione di coscienza di medici, infermieri e anestesisti.
Com’è noto, con l’approvazione dell’emendamento al decreto PNRR, viene consentito alle associazioni pro-life, dunque antiabortiste, di entrare nelle strutture alle quali si rivolgono le donne per avviare l’interruzione di gravidanza.
Viene naturale domandarsi, a questo punto, come mai quelle che vengono indicate come misure che favoriscono una scelta consapevole debbano essere affidate ai comitati provita, composti da persone che non hanno una una formazione professionale specifica e non, invece, a una corretta educazione affettiva e sessuale da impartire nelle scuole attraverso figure specializzate.
E veniamo a un’altra nota dolente, l’OCCUPAZIONE FEMMINILE.
Il tasso di occupazione femminile in Italia, secondo gli ultimi dati Eurostat, è il più basso tra gli Stati europei. Se lo confrontiamo con la media europea, dove il livello di occupazione femminile è pari al 69,3%, l'Italia resta indietro di circa 14 punti percentuali.
Eppure, il governo ha mostrato con orgoglio dati sulla crescita occupazionale femminile. Tuttavia, prima di gridare al miracolo, occorrerebbe ricordare, come si evince dal report Donne e lavoro 2023 dell'Istat, che il lavoro femminile corrisponde per la maggior parte a impieghi part-time o con contratti precari, per non parlare della percentuale di donne occupate con un figlio, che si ferma al 63%, contro il 90,04% degli uomini. Inoltre, il dato complessivo fornito dal governo non tiene conto degli stridenti divari tra Nord e Sud, con i valori delle regioni meridionali inferiori alla media nazionale. A questo quadro si aggiunge una retribuzione oraria femminile dell'11% inferiore a quella degli uomini, in media, con evidenti differenze territoriali.
MATERNITA’
Altro tema assai gradito a questo governo è quello della maternità, a sostegno della quale corre in aiuto il “bonus mamme”, che tuttavia prevede l’esenzione dei contributi previdenziali solo per le madri lavoratrici dipendenti, con un contratto a tempo indeterminato, con tre o più figli (con al massimo 18 anni di età). Questa misura, inoltre, è soggetta a rifinanziamento annuale, a dispetto dei proclamati cambiamenti strutturali. Evidente, infine, l’esclusione dei padri, coerentemente con una politica che, con palese anacronismo, relega le donne al ruolo di cura.
A corollario di questa analisi, non può mancare un accenno all’Iva sugli assorbenti, rimasta al 22%, quindi equiparata ai beni di lusso. Nel 2022 il governo Draghi l’aveva ridotta al 10%, mentre nella legge di bilancio varata nel 2023 il governo Meloni aveva finalmente abbassato l'imposta al 5%, facendo tuttavia dietro front con la legge di bilancio 2024. Un passo indietro clamoroso che conferma come il ciclo mestruale in Italia sia considerato, è il caso di dirlo, un lusso.
Stesso discorso per quanto riguarda la contraccezione: nel 2023 l'Agenzia italiana del farmaco (Aifa) aveva proposto di rendere la pillola anticoncezionale gratuita, così da rendere la contraccezione sicura un diritto e non un privilegio basato sul reddito. Per inciso, è quello che avviene nella maggior parte dei paesi europei, dovei i prezzi della contraccezione sono massicciamente calmierati e in molti casi l’esenzione è totale. Tuttavia, il nuovo Consiglio di amministrazione dell’Aifa ha prontamente bocciato la proposta.
CONCLUSIONI
Dove non arrivano i fatti, sembrano giungere le parole, meglio se ammantate da una buona dose di retorica. A partire dalla sbandierata superiorità della famiglia tradizionale che, però, sembra non essere la scelta privilegiata di Presidenti, Ministri ed entourage dell’attuale governo. Qualche settimana fa – come dimenticarlo – imperava su social e stampa la polemica sulla pugile algerina Imane Khelif, definita arbitrariamente trans da alcuni esponenti del governo. Va da sé che il dibattito è diventato strumento affilato da brandire contro “le follie dell’ideologia woke”.
In riferimento alle politiche a sostegno delle donne, i due anni del governo Meloni hanno dunque il sapore amaro delle occasioni mancate. Occasioni che, a onor del vero, non sono state mai colte del tutto neanche dalla controparte. Senza, tuttavia, l’aggravante di una retorica che continua a rivolgersi alle donne soprattutto nel loro ruolo di madri e a perpetuare dinamiche patriarcali dure a morire. Dell’anacronistica scelta politica di Giorgia Meloni di declinare il suo ruolo al maschile ho già detto. E, lo ribadisco, le parole non sono mai solo parole.
Se il vero obiettivo del governo, al di là dei roboanti proclami elettorali, è sostenere le famiglie, si dovrebbe cominciare dal garantire autodeterminazione alle donne in merito alle scelte procreative, quindi tener fede alla parola data su prodotti igienico-sanitari, su sgravi fiscali, su asili nido e promuovere misure concrete per favorire l’occupazione femminile.
Resta da chiedersi se l’indissolubile triade donna/madre/cristiana non sia anche un criterio di valutazione sulla base del quale erogare, o meno, misure di supporto in favore delle donne.
Perché non basta essere donna per stare dalla parte delle donne.
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