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Immagine del redattoreDavide Panunzi

Norwegian Wood: Murakami Haruki e la sofferenza della morte

Murakami Haruki è stato una scoperta fondamentale per me. Da poco tempo mi sono avvicinato alla cultura giapponese per interesse e, dopo soli pochi mesi, posso dire che è diventata una vera e propria passione travolgente. Due cose, più di tutto il resto, mi hanno convinto della bellezza della cultura giapponese: Haikyuu, un anime giapponese che racconta le vicende di una squadra di pallavolo e Murakami Haruki. Norwegian Wood è il primo libro che ho avuto la fortuna, oltre che il piacere, di leggere di questo autore.

Rinko Kikuchi and Kenichi Matsuyama in “Norwegian Wood,” an adaptation of the 1987 novel by Haruki Murakami.Credit...Asmik Ace/Venice Film Festival

Il romanzo narra in prima persona di un lungo flashback di Watanabe Tōru. Su un aereo atterrato ad Amburgo, accompagnato dal suono di Norwegian Wood dei Beatles, egli ricorda un episodio fondamentale avvenuto diciotto anni prima: l'incontro con una ragazza, Naoko, la fidanzata di Kizuki, un suo amico suicidatosi pochi mesi prima. Questo ricordo in Watanabe è, in realtà, un ripercorrere il sentiero tortuoso e difficile della sua post adolescenza: gli anni in università, l'amicizia con un ragazzo stravagante e definirei anche controcorrente, come Nagasawa. Ricorda, inoltre, le sue difficoltà in ambito amoroso: dapprima con la stessa Naoko, un amore impossibile terminato con il ricovero in un istituto psichiatrico da parte di lei e con Midori, una ragazza conosciuta frequentando i corsi universitari: la definirei genuinamente folle e maledettamente malinconica, per via della sua esistenza segnata da lutti familiari. Watanabe frequenta l'università tra il 1968 e il 1970, un periodo di forti movimenti rivoluzionari. Egli stesso decide di rimanere estraneo sia dalle occupazioni universitarie che da quegli ideali che hanno spinto movimenti di protesta ad agire per "salvaguardare" il futuro della sua e delle prossime generazioni.


Watanabe, grazie alla sua esperienza, comprende una verità incontrovertibile e, allo stesso tempo semplice: «La morte non è qualcosa di opposto ma di intrinseco alla vita». Il tema della morte mi ha riportato a un altro grande scritto filosofico: Il diritto di morire di Hans Jonas, uno dei filosofi più sottovalutati del Novecento tedesco e che annovera la morte tra le esperienze che si compiono in vita e, per questo, deve rientrare nel campo delle nostre scelte. La morte è un elemento che appartiene alla vita e non è un caso se è divenuta un argomento rilevante per l’indagine filosofica e non solo. Basti pensare all’importanza che la morte stessa assume all’interno di una religione come il cristianesimo: il mistero della Pasqua non è forse l’elemento cardine della tradizione cristiana?


Anche se Norwegian Wood, così come il testo di Jonas siano degli anni Ottanta, restano comunque una “letteratura efficace” per i dibattiti pubblici avvenuti su alcuni temi cruciali degli anni Duemila, come ad esempio, l’eutanasia. Numerosi dibattiti televisivi si sono svolti su questo tema delicato, soprattutto dopo due casi di cronaca abbastanza famosi: Eluana Englaro e Piergiorgio Welby. La mia coscienza personale, dopo aver combattuto per anni con il concetto della morte, non può che assurgere a una verità apodittica: comunque la si pensi, è innegabile che la morte non vada esorcizzata né con riti né con credenze religiose perché è l’ultimo atto che appartiene alla vita intera e, dunque, appartenente a un diritto che è quello di “scelta”. Per questo, io credo sia giusto che ognuno di noi abbia la possibilità di scegliere, in taluni casi, di morire.


È incredibile come un romanzo, apparentemente come tutti gli altri, ci possa portare a una serie di riflessioni importanti sul nostro essere, sul nostro esistere e quanto possa essere attuale nel nostro dibattito pubblico, nel nostro comune sentire.


Un ultimo aspetto molto importante (che ha contribuito alla mia recensione positiva verso questo libro e, soprattutto, verso l’autore) è legato alle emozioni negative: siamo abituati a vivere in una società in cui opera per tentare continuamente noi stessi alla demonizzazione delle esperienze negative: non è un caso se ci sentiamo stressati, sempre pieni di cose da fare, affaticati per le ore che impieghiamo, ogni giorno, nello svolgimento delle nostre attività quotidiane e, anzi, volontariamente le riempiamo per evitare di sentirci soli. Questo libro io lo definirei un “inno alla sofferenza”: Murakami Haruki si sofferma sul concetto di sofferenza più volte, quasi coccolando il concetto in sé, stimolando al lettore una riflessione più profonda del senso autentico che la sofferenza stessa porta con sé.


"Niente può lenire la sofferenza di perdere una persona amata. Non c'è verità, sincerità, forza, dolcezza che ci possa guarire da una sofferenza del genere. L'unica cosa che possiamo fare è superare la sofferenza attraverso la sofferenza, possibilmente cercando di trarne qualche insegnamento, pur sapendo che questo insegnamento non ci sarà di nessun altro aiuto la prossima volta che la sofferenza ci colpirà all'improvviso".


Viviamo le esperienze negative, perché anche filosoficamente si è dimostrato che il momento negativo è necessario per garantire un successivo momento positivo. Non abbiamo paura di essere tristi, di vivere una sofferenza, di ricordare come Watanabe il nostro passato, senza insabbiarsi ma andando avanti con il coraggio di chi, quella sofferenza, l’ha vissuta e superata, convivendoci assieme.

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