Amor mi mosse, che mi fa parlare
- Vincenzo Pantalena
- 24 apr
- Tempo di lettura: 5 min
Aggiornamento: 27 apr
Tra le tre parti (o “cantiche”) in cui è suddivisa la “Divina Commedia” (Inferno, Purgatorio, Paradiso) solo la prima risulta composta da 34 canti invece dei 33 che formano Purgatorio e Paradiso (portando il totale dei canti al numero di 100), poiché in realtà il canto primo funge da Proemio (cioè introduzione) di tutta l’opera, rivelando le circostanze che portano il personaggio di Dante a compiere lo straordinario cammino di salvezza e redenzione a cui egli è chiamato dalle parole della sua guida, Virgilio.
Questo cammino, da noi definito un “cammino di libertà”, postula e richiede un coinvolgimento della volontà del protagonista, cioè non potrebbe mai avvenire senza il consenso e la decisione di Dante stesso di uscire dalla situazione di peccato e di perdizione nella quale rischiava di venire risucchiato nella “selva oscura”. Ma è proprio questa volontà che viene da subito messa alla prova all’inizio del percorso.
Davanti alla prospettiva di questo singolare “viaggio”, che richiederà molte energie sia fisiche che spirituali (l’autore ne parla come di una “guerra sì del cammino, sì della pietate”), egli è colto da sgomento, è assalito dai dubbi, è impedito nuovamente (come nel primo canto davanti allo spauracchio delle tre fiere) dal timore di non farcela: “troppo grande per me questa impresa” sembra dire a Virgilio, “prima di me gli unici due uomini ai quali fu concesso di vedere l’aldilà prima della morte furono Enea e San Paolo, per motivazioni legate al compimento di una missione in qualche modo divina. Nel caso di Enea, la discesa negli Inferi (di cui aveva narrato lo stesso Virgilio nell’ “Eneide”) era servita all’eroe per scoprirla questa missione, rivelatagli per bocca del defunto padre Anchise: fondare una discendenza da cui avrebbe avuto origine il grande impero di Roma (che sarebbe divenuta poi sede del papa). Nel caso di San Paolo, la sua salita “fino al terzo cielo” (probabilmente il Paradiso, che egli dichiarò di aver visto in rapimento mistico nella “Seconda Lettera ai Corinzi”) aveva avuto la funzione di confermare la fede dell’apostolo e di prepararlo a ricevere il martirio, a rafforzare, attraverso la sua testimonianza, la fede della Chiesa.
“Ma io non Enea, non Paulo sono”: con queste parole dunque Dante, facendo appello alla sua presunta indegnità (me degno a ciò né io né altri ’l crede), vuole giustificarsi e non iniziarlo nemmeno questo cammino.
Occorre allora che Virgilio intervenga per liberarlo da questa “trappola interiore” tramite un discorso che anzitutto chiama per nome il vero impedimento del protagonista, ossia la sua viltà (l’anima tua è da viltade offesa), proprio perché da vero amico ha la libertà e il compito di “fargli da specchio”, e in secondo luogo lo rianima rivelandogli di essere stato “pensato con amore” da qualcuno che, lassù in Cielo, ha voluto mandare proprio lui in suo soccorso: non si tratta di una sola, ma di ben tre figure femminili che, vedendo Dante in grave difficoltà nella selva oscura, hanno “collaborato” con un vero e proprio gioco di squadra.

“Donna mi chiamò beata e bella”: con questo endecasillabo Virgilio per la prima volta in tutta l’opera definisce Beatrice, colei che dal Paradiso era giunta nel Limbo (ossia nel luogo ove stava l’anima di Virgilio) per invitarlo a scendere in quella selva e tirare fuori “l’amico mio e non de la ventura” (così ella definisce Dante, riconoscendogli la lealtà dei sentimenti) da quella situazione di pericolo. “Amor mi mosse, che mi fa parlare”. Si sente in queste parole l’eco di tanti versi della “Vita nova” e di altre opere poetiche dedicate da Dante stesso alla sua amata, con la differenza che in questo caso è lei il soggetto attivo dell’amore, ma di un amore puro, non più inquinato dalla brama di possesso o di alcuna forma di egoismo.
La forma di Amore di cui qui Beatrice si rende protagonista è inoltre molto simile alla sollecitudine premurosa di una madre che va in soccorso del figlio in difficoltà, è amore “preveniente”, che agisce concretamente, efficacemente e gratuitamente a favore degli uomini senza che questi se lo meritino. Insomma, è specchio della Grazia di Dio, come prova il fatto che l’iniziativa di Beatrice è preceduta da santa Lucia (santa alla quale Dante era particolarmente devoto), che le reca la notizia di quel pericolo, dopo averla a sua volta ricevuta da colei che da sempre la Chiesa considera la “Madre della divina Grazia” e che appunto per prima “si compiange di questo impedimento”: la Vergine Maria. Ella, che nel suo celebre cantico del “Magnificat” aveva dato prova di vera umiltà nel riconoscere “grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente” per aver accettato la proposta di divenire la Madre del Salvatore (“viaggio” che fu per lei tutt’altro che facile) e che perciò Dante propone come l’esatto opposto di quella finta umiltà che lo teneva ancora prigioniero delle sue paure.
Ma non è nostro intento colorire di tonalità moralistiche tale contrapposizione, né credo lo fosse quello di Dante: ciò significherebbe svilire l’altezza del messaggio contenuto in questi versi. Ad una lettura più profonda, ci sembra piuttosto di riconoscere in questa azione della Grazia un movimento tipico di “kènosis”, ossia di svuotamento dalla propria condizione privilegiata (Beatrice che “scende” dal Paradiso all’Inferno per chiamare Virgilio in soccorso del suo amico, ad imitazione di Cristo che “spogliò sé stesso” per assumere la condizione di servo e liberare l’uomo dal suo peccato), che è un movimento completamente libero, indotto da quel tipo di Amore che ha solo in Dio la sua sorgente primaria, ossia l’amore per il nemico, per il peccatore, per l’uomo insomma meno “degno” possibile di tutto questo. Solo davanti allo splendore di questa “kènosis” Dante, che proprio in nome dell’ “indegnità” voleva arrestare il suo cammino sul nascere, libera le ali del suo desiderio di salire al cielo perché comprende, con gli occhi della fede, che un tale Amore si può solo accoglierlo (o rifiutarlo), non meritarlo.
Per venire in suo soccorso, c’è voluto dunque il potere di ben tre eccezionali amori materni, specchio dell’unico Amore-sorgente di Dio: difficile resistere ad un tale adoperarsi e preoccuparsi per la propria salvezza.
Quali fioretti dal notturno gelo / chinati e chiusi, poi che ’l sol li ’mbianca / si drizzan tutti aperti in loro stelo, / tal mi fec’io di mia virtude stanca, / e tanto buono ardire al cor mi corse.

Non occorrono parole di commento per spiegare questa meravigliosa similitudine che l’autore usa per descrivere il momento in cui egli si rianima, si spoglia dei suoi timori e si dispone finalmente al viaggio (Tu m’hai con disiderio il cor disposto / sì al venir con le parole tue).
Vorrei concludere questa lunga riflessione sul canto secondo dell’Inferno con una considerazione: c’è una parola che ricorre in varie forme in questo canto (e successivamente in molti passi della Divina Commedia), che è la parola “pieta”: la pietà (titolo anche di una celeberrima opera di Michelangelo). Dante è rianimato dall’esperienza della compassione (o pietosa colei che mi soccorse), dall’incontro con qualcuno che si fa carico del suo dolore, che lo porta dentro di sé (“compatire” viene dal latino cum + pati = soffrire insieme) fino al punto da coinvolgersi attivamente nel suo destino (come il Samaritano della celebre parabola evangelica). Quanto il mondo ancora oggi abbia bisogno di questa capacità di compassione, è sotto gli occhi di tutti. Lui stesso nel corso del suo viaggio sarà più volte chiamato ad esercitare questa virtù, poiché solo da una autentica immedesimazione nelle sofferenze dei dannati e delle anime purganti potrà essere aiutato a portare a compimento quel “cammino interiore” di discesa, di presa di coscienza anche di sé stesso e al contempo di “uscita da sé stesso”, per riscoprirsi nella sua nuda realtà (come direbbe il poeta Ungaretti) “una fragile fibra dell’universo”.