Proseguendo la riflessione avviata in un precedente articolo, ci avventuriamo ora nella scoperta di come Dante nel canto primo dell’Inferno concepisce il tipo di salvezza che viene offerta a chi come lui, pur essendosi perso nella vita, non smette di alimentare il desiderio e “la speranza dell’altezza”. Dante afferma di aver notato non molto lontano dalla selva “che m’avea di paura il cor compunto” un colle illuminato dai raggi del sole, dunque un luogo connotato da caratteristiche opposte all’oscurità da cui si sentiva avvolto “la notte che passai con tanta pieta”: la vista della luce è quella che riesce a guidarlo verso l’uscita da quel tunnel “che non lasciò già mai persona viva”, una vista che lo libera dall’angoscia (“allor fu la paura un poco queta”), che gli dona da sola la forza di mettersi in movimento laddove prima era paralizzato (“ripresi via per la piaggia diserta/ sì che ‘l pié fermo sempre era ‘l più basso”). La luce attiva dunque un dinamismo, un’energia che fa muovere verso il proprio riscatto l’uomo per istinto naturale portato verso la vita, non verso la morte.
Ma proprio quando è all’inizio di questa ascesa (“quasi al cominciar de l’erta”), il nostro personaggio si scontra con qualcuno che gli impedisce il cammino: “una lonza leggiera e presta molto”, che la maggior parte dei critici identifica con quella che nei bestiari medievali stava per la lince. Nel linguaggio allegorico di cui è pieno soprattutto questo primo canto dell’Inferno, la lince rappresenterebbe il vizio della lussuria, ossia l’attaccamento morboso al piacere sessuale: esso “ ‘mpediva tanto il mio cammino/ ch’i’ fui per ritornar più vòlte vòlto”, ossia fa ritornare più volte Dante sui suoi passi.
Ma non basta. Subito dopo la lince, Dante scorge davanti a sé un leone, il quale “con la test’alta e con rabbiosa fame” (simbolo della superbia) si dirigeva proprio verso di lui, ed una lupa, che “nella sua magrezza” sembrava divorata da “tutte brame”, termine col quale l’autore sta ad indicare la brama insaziabile di avere tutto: la cupidigia.
Lussuria, superbia, cupidigia: Dante ha il coraggio di chiamare per nome le disposizioni che gli impediscono di dare effetto a quanto pur aveva concepito con la volontà, il suo cammino verso l’uscita, verso la luce. In particolare è proprio quando l’uomo ha preso la decisione di riscattarsi dalla sua condizione di abiezione, di intraprendere il cammino verso il bene, che si manifestano più fortemente che mai le forze opposte del male: forze che non sono mai le stesse per tutti gli uomini, perché ognuno “conosce i propri demoni”, ma molto spesso non sa come fronteggiarli.
Ho sempre riflettuto con una certa perplessità sul fatto che Dante consideri tali “ostacoli interiori” (le tre disposizioni negative simboleggiate dalle tre fiere) come motivo per lui di “paura”: come si fa ad avere paura dei propri vizi? Di solito ne coltiviamo una compiacente complicità, al massimo ci si può sentire impotenti nel combatterli, infastiditi dalla necessità di rimproverarsi o essere rimproverato dagli altri per questi e per i loro effetti (ossia le nostre azioni più negative), ma provare addirittura “paura” per causa loro... come è possibile?
Ecco allora una risposta che mi sono dato, sempre cercando di leggere in profondità il messaggio della Commedia.
Dante, sopraffatto davanti all’aspetto minaccioso dell’ultima delle tre fiere, la lupa, quella che lui definisce “la bestia senza pace”, si sente risucchiare verso il basso, verso l’oscurità (“mi ripigneva là dove ‘l sol tace”). Un’oscurità peggiore della precedente, perché coincide con la perdita di ogni speranza (“io perdei la speranza de l’altezza”). È questo, a nostro avviso, il momento più difficile per il protagonista della Commedia, forse quello più difficile per ogni essere umano.

Ma la Commedia non è un poema della disperazione. L’autore, con lo stesso mezzo dell’allegoria usata per raffigurare i suoi “tre nemici interiori”, evoca per bocca di Virgilio a partire dal verso 101 il veltro (= cane da caccia) che verrà e farà morire con dolore la lupa. Chi è costui, questo salvatore che solo può sconfiggere il male della cupidigia, cioè dell’egoismo insaziabile che è la radice di ogni peccato? Tra le numerose interpretazioni date dagli studiosi, preferiamo quella che lo identifica in Gesù Cristo, colui che “non ciberà né terra né peltro”, cioè non si ciberà di ricchezze, ma di “sapienza, amore, virtù”: qualunque altro testimone della povertà come scelta di vita evangelica infatti si richiama a Cristo. Egli solo avrà il potere di rimandarla nell’inferno, da dove la fece sguinzagliare la “ ‘nvidia prima” (cioè il diavolo) per farla andare per il mondo a contagiare gli esseri umani.
Dunque Dante, per bocca di Virgilio ha la possibilità di ricordare (da cristiano qual era) che c’è uno, “il Forte, il Potente” (Salmo 24, 8) che può avere più forza del male. Ma sapere questo non basta. Virgilio, come ogni guida saggia, sa che non è sufficiente evocare verbalmente una soluzione per tirar fuori magicamente un amico dal suo male. Occorre aiutarlo a recuperare l’immagine di sé stesso, a maturare autonomamente la consapevolezza della condizione in cui è caduto, per creare in Dante stesso le condizioni per aprirsi all’azione del Salvatore. Insomma, l’opera più importante che compie Virgilio è quella (come dicevamo nell’articolo precedente) di fargli “da specchio” e lo fa con una domanda spiazzante, che rivolge a Dante all’inizio del loro dialogo, quando lo vede precipitare verso il basso: “Perché tu ritorni a tanta noia?” (cioè “perché sprofondi nell’angoscia?”). E glielo chiede non perché non lo sapesse già (o peggio, perché volesse irridere la debolezza dell’amico), ma perché lo vuole aiutare a guardarsi dentro e a trovare così la vera via da intraprendere per uscire dalla disperazione.
Ed eccoci alla tanto attesa risposta: perché Dante ha paura delle tre fiere?
“A te conviene tenere altro viaggio”: in questo endecasillabo, che se pronunciato con tutti gli accenti delle parole suona in tutta la sua solennità, sta il senso di tutto il viaggio di cui l’autore parla nella Divina Commedia. Virgilio con queste parole indica a Dante una via diversa (“altro”) da quella che inizialmente aveva immaginato (quella verso il colle) per raggiungere la luce della salvezza e l’incontro con il Salvatore. Si tratta di una via che passa per l’Inferno, per il Purgatorio e per il Paradiso (evocati dal verso 114 al verso 123); una via più lunga, più faticosa, l’unica che egli possa percorrere (il verbo “conviene” sta qui per il Latino oportet, che significa “non resta altro da fare, lo devi fare, se vuoi salvarti) e che comporta la discesa negli abissi dell’Inferno, la dura meditazione sulle molteplici forme e conseguenze del peccato (le “disperate strida” dei dannati) per poter poi risalire, attraverso la montagna del Purgatorio, verso la visione di Dio.

Dante, scendendo nell’Inferno, in realtà sta scendendo anche dentro le sue stesse oscurità, quelle che lo hanno condotto a perdersi. E questo gli fa molta paura.
Ma mentre nella solitudine della prima parte del canto Dante era diventato preda della disperazione (come capita a chiunque si metta a guardare le proprie miserie da solo, senza capirci poi molto e restando sostanzialmente fermo, immobilizzato, paralizzato come si diceva diventasse chiunque guardasse la testa di Medusa), da questo momento in poi egli si muoverà, si metterà in cammino. Un cammino che potrà compiere lui solo (nessuno al posto suo o per conto suo lo potrebbe fare), e al contempo un cammino in cui non sarà più solo, poiché ci sarà qualcuno sempre con lui (nel Paradiso sarà Beatrice la guida), verrà guidato e curato attraverso la relazione ad entrare nelle sue stesse profondità, quelle che appunto prima non aveva il coraggio di fronteggiare. Il cammino che egli si appresta a compiere è dunque un vero cammino di libertà.
E sarà poi solo apparentemente una discesa: chi conosce la geografia dantesca (ben osservabile in qualunque riproduzione medioevale del globo terrestre, così come immaginato ai tempi dell’autore: basta guardarla “al rovescio”) sa che per attraversare tutta la voragine infernale fino al suo punto più basso Dante deve prendere una direzione che lo sta portando in realtà verso l’alto, cioè verso l’altro emisfero, quello dove poi salirà sulla montagna del Purgatorio per poi “spiccare il volo” verso il Paradiso. Come acutamente sintetizzato dal prof. Gregorio Vivaldelli (che ringrazio) in alcune delle sue brillanti lezioni pubbliche sulla Divina Commedia, in questo incredibile racconto “Chi scende, sale”. Non da soli. Verso la luce.