top of page

2025, Italia: dove la guerra si fa a parole… non dette

C’è chi sostiene che la guerra sia prima di tutto una questione di armi.

Ma nel dibattito politico contemporaneo — soprattutto in Italia — la battaglia più feroce sembra combatterla la lingua. È un conflitto semantico, un logorante scontro di sinonimi e reticenze: bombe lessicali, tregue retoriche, armi grammaticali di distrazione di massa. 

https://pixabay.com/illustrations/traffic-sign-prohibition-warning-9621049/

Il lessico della cautela (o dell’ambiguità strategica)

 

“Condanniamo ogni forma di violenza.”

È la formula magica che accomuna comunicati di partito, talk show e dichiarazioni istituzionali. Un perfetto campo neutro linguistico: nessuno è nominato, nessuno è offeso, tutti possono annuire.

 

È il trionfo della voce impersonale: “si condanna”, “si auspica”, “si invita”.L’unica cosa che non si fa, di solito, è prendere posizione.

La grammatica della neutralità come sofisticata forma di autodifesa politica.

 

L’equilibrio come valore (retorico) assoluto

 

Nessun politico ama apparire fazioso, e così l’“equilibrio” è diventato la parola d’oro.

“Israele ha diritto a difendersi, ma anche i civili palestinesi vanno tutelati.” Il tutto pronunciato con espressione grave, da chi sa che basta dire “ma anche” per sembrare saggio.

 

Eppure, in questo linguaggio dell’equidistanza, la distanza non è mai uguale da entrambe le parti. È una forma di bilanciamento morale che pesa più il consenso che i corpi.

 

Il “contesto” come dispositivo retorico

 

Quando gli argomenti diventano scivolosi, arriva lui: il “contesto”.

“Bisogna capire il contesto. ”Frase salva-tutto, buona per ogni emergenza diplomatica o talk televisivo. È un concetto liquido, che si solidifica solo quando serve a giustificare una parte e a semplificare l’altra. Il “contesto” è la nuova “oggettività”: appare neutro, ma raramente lo è.

 

La destra, la sinistra e la semantica dell’accusa

 

In Italia, lo scontro non è solo geopolitico ma linguistico.

La destra accusa la sinistra di usare parole “violente”, “estremiste”, “simpatizzanti del terrorismo”. La sinistra, dal canto suo, accusa la destra di svuotare il linguaggio, di ridurlo a slogan, di anestetizzare la realtà dietro la parola “difesa”.

 

È una gara di purezza linguistica: chi parla troppo è colpevole di eccesso di empatia; chi parla poco è sospetto di cinismo.

La lingua, in fondo, è l’ultima frontiera ideologica.

 

Il tabù del “genocidio”

 

E poi c’è lei: la parola proibita.

“Genocidio” è diventata il tabù linguistico del dibattito politico contemporaneo.

Per alcuni è il termine giusto, il solo che renda l’idea della sproporzione e della continuità storica della violenza. Per altri è un’eresia semantica, una bestemmia diplomatica.

 

Si è creata una vera e propria sociologia dell’eufemismo: chi dice “genocidio” viene considerato ideologico; chi evita la parola si proclama “responsabile”. La scelta lessicale diventa una dichiarazione di appartenenza morale, prima ancora che politica.

 

Gli aggettivi della responsabilità selettiva

 

“Barbaro”, “atroce”, “disumano”: parole potenti, ma raramente simmetriche. Quando muoiono israeliani, è “un massacro”; quando muoiono palestinesi, “una tragedia”. Nel primo caso, c’è un colpevole; nel secondo, un fato. È la grammatica della causalità morale: gli aggettivi raccontano ciò che i nomi tacciono.

 

Il futuro anteriore della coerenza

 

Ogni leader parla di “soluzione a due Stati” come si parla di un sogno remoto: “Quando ci sarà la pace, noi saremo stati dalla parte giusta. ”Il tempo verbale è quello della retorica retroattiva: prima la dichiarazione, poi la storia che la giustificherà.

 

Nel linguaggio politico sulla Palestina non si cerca la verità, ma la posizione accettabile. Ogni parola è un campo minato, ogni aggettivo un rischio diplomatico. E forse non è un caso che il modo più diffuso di evitare il conflitto sia proprio evitare la parola. “Palestina” diventa così un nome difficile da pronunciare, perché nominarla significherebbe riconoscerla. E riconoscerla — anche solo linguisticamente — sarebbe già una forma di schieramento.

 

La guerra delle parole, in fondo, è la versione semantica del conflitto: nessuno vince, tutti si giustificano.


Forse la pace linguistica arriverà quando si potrà dire Palestina non come un problema da gestire, ma come uno Stato da riconoscere.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

  • Instagram
  • Facebook
bottom of page