Cabaret scadente: il piano di pace che ride solo agli occupanti
- Ilenia D’Alessandro

- 4 ott
- Tempo di lettura: 3 min
Nelle storie ci sono supereroi, supereroine, i cattivi (o le cattive) e i personaggi divertenti, i buffoncelli, come Ciuchino di Shrek o Lumière de La Bella e la Bestia. Nel nostro mondo, invece, abbiamo la Flotilla, Israele e poi Trump, che scrive venti punti assurdi per il suo “piano di pace”. Un elenco che più che pace sa di diktat: un cessate il fuoco alle condizioni di Israele, concesso ai palestinesi solo quel poco che basta a farli respirare, ma non a vivere. E Hamas? “Ci sta pensando”. Strano, vero?

Venti punti in fila, studiati per blindare la sicurezza e la legittimità degli occupanti, e per concedere ai palestinesi solo nuove catene, magari più eleganti, ma pur sempre catene.
Si parte dall’ovvio: cessate il fuoco immediato, rilascio graduale degli ostaggi israeliani, scambio di prigionieri palestinesi. Poi il cuore del piano: il disarmo progressivo di Hamas e la consegna di tutte le armi pesanti e medie, sotto la sorveglianza di ispettori stranieri — ovviamente scelti in orbita americana — così da ridurre Gaza a una popolazione inerme, vulnerabile, osservata da ogni angolo. Una smilitarizzazione totale che non lascia spazio alla resistenza, forse nemmeno all’esistenza.
Il controllo politico non è meno inquietante: al centro c’è il cosiddetto Board of Peace, un organismo di governance provvisoria imposto dall’esterno e affiancato da una forza internazionale di stabilizzazione, cioè soldati stranieri nelle strade di Gaza. E, a sorpresa, ecco Tony Blair, chiamato a vestire i panni di “inviato speciale” o co-presidente operativo del Board. L’ex premier britannico, già inviato del Quartetto in Medio Oriente (2007-2015), viene presentato come garanzia di esperienza e di contatti diplomatici. Trump lo presenta come “volto internazionale neutrale”, spendibile tanto con i moderati arabi quanto con Israele. Neutrale, si, quanto Pulcinella in un teatrino di marionette per bambini.
Nel frattempo, sia Hamas sia Fatah in qualità di Autorità Nazionale Palestinese vengono esclusi dall’amministrazione diretta di Gaza. I palestinesi, dunque, rifiutati come “collaboratori” (neanche questo ruolo gli è concesso) nella gestione della propria terra. Al massimo, in una fase futura e indefinita, si parla di “unificazione” tra Cisgiordania e Gaza sotto una governance palestinese riformata (da chi?). Ma i dettagli mancano, e i nodi veri – Gerusalemme e i confini dei fantomatici due stati – restano accuratamente fuori dal testo.
E così, la vita quotidiana dei due milioni di abitanti di Gaza verrebbe regolata da altri: persino i valichi di frontiera posti sotto controllo internazionale, la distribuzione degli aiuti gestita da agenzie esterne, la ricostruzione di scuole e ospedali vincolata ai donatori esteri e sotto il loro controllo diretto. La dignità, venduta al miglior offerente. Si parla anche di zone economiche speciali per attrarre investimenti stranieri: un futuro dove il popolo palestinese diventa manodopera a basso costo nel suo stesso territorio.
Israele, da parte sua, si riserva un ritiro graduale delle truppe, ma solo a condizione che i e le palestinesi mostrino “buon comportamento”. Una pedagogia coloniale, con tanto di premi e punizioni collettive. Nel frattempo, riforma dei servizi di sicurezza palestinesi, registro unico della popolazione sotto occhi stranieri, dogane e fisco affidati a organismi internazionali: ogni respiro amministrato dall’esterno.
Alla fine, l’orizzonte politico appare come un miraggio: uno Stato palestinese “possibile” solo dopo smilitarizzazione, governance tecnica e “comportamento pacifico verificato”. Un’autodeterminazione condizionata, sorvegliata, revocabile in ogni momento. Cioè un’autodeterminazione che di autodeterminata non avrà nulla. Una vergognosa altra menzogna.
Questi venti punti parlano di tante cose meno che di pace. Raccontano l’ennesimo progetto di occupazione travestito da piano diplomatico: la sicurezza di Israele scolpita nel marmo, la sovranità palestinese ridotta a slogan, la vita di milioni di persone trasformata in un esperimento amministrativo gestito da potenze straniere.
Trump lo chiama eredità diplomatica. Ma a leggerlo fino in fondo, somiglia più a un copione da cabaret scadente. Infatti anche qui, purtroppo, non c’è nulla da ridere.





