Parole per Gaza: Non chiamatela “guerra”
- Mario Bove

- 8 ott
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Quando un artigiano del legno osserva la sua opera, mettendola a paragone con un prodotto industriale, ne elogia tutti i minuti dettagli, gli incavi che ha ripercorso decine di volte per levigarli a dovere, le venature del legno che conosce meglio delle anse e linee del suo palmo. Il prodotto seriale è invece il risultato finale di una fredda precisione standardizzata, non rifinita e sempre uguale, figlia a buon mercato di un tornio automatizzato, anch’esso prodotto in serie. L’artigiano guarda ad esso come ad un qualcosa senza storia né sentimenti.
Allo stesso modo, chi lavora con le parole ha un rapporto viscerale con esse, ad un tempo strumento e opera del suo mestiere, e si rabbuia non poco nel vederle usate grossolanamente da un’informazione spesso viziata da marketing e propaganda seriale. La condizione in cui versa la popolazione palestinese merita, al pari di altre, un trattamento più umano a partire proprio dalle parole che utilizziamo comunemente.

Chiamano guerra gli atti disposti dall’esercito di Israele contro i terroristi di Hamas dopo l’attacco del 7 ottobre. Di fatto, i civili di Gaza e dei territori occupati sono divenuti l’obiettivo di questo dramma, colpiti non solo con le armi ma anche con le angherie imposte quali l’interruzione di acqua, cibo e farmaci. Quella in atto è piuttosto una aggressione, una vendetta non solo contro Hamas ma contro tutti i palestinesi, divenuta presto un’operazione di conquista finale degli ultimi lembi di terra ancora non ufficialmente ricondotti nella disposizione di Israele.
La guerra si combatte fra gruppi organizzati, armati. Sono stati gli eserciti a darsi guerra come accade ad esempio al confine fra Ucraina e Russia. Gli attori coinvolti dovrebbero seguire le norme scritte nel Diritto Internazionale Umanitario (DIU) che prende le mosse dalle Convenzioni di Ginevra del 1864 e dai successivi accordi. Sono principi che cercano di rendere meno feroce un conflitto, garantendo la salvaguardia di militari feriti, prigionieri, naufraghi e civili. Questo non sta accadendo a est del Mediterraneo dove IDF viola sistematicamente quel confine fra la cieca brutalità e la violenza organizzata. Seguendo quanto stabilito dal DIU, i principi infranti dall’esercito israeliano sono la proporzionalità della violenza applicata rispetto all’obiettivo da perseguire, la mancanza di distinzione fra obiettivi civili e “militari”, il blocco degli aiuti umanitari, qui esca per stragi durante la distribuzione dei generi alimentari o bersaglio diretto di vere e proprie esecuzioni.
Nel diritto internazionale la guerra è una condizione che interessa degli stati belligeranti che adoperano la violenza contro il territorio, le persone e i beni dell’altro stato, al fine di risolvere delle controversie. La “controversia” in atto fra Israele e il popolo palestinese è l’annessione allo stato ebraico dei territori palestinesi dal 1948. Lungo numerose recrudescenze, colonizzazioni ed espansioni contro cui si è pronunciata l’ONU, tentativi falliti di compromesso, forti ingerenze estere, attentati e diversi picchi negli scontri, si è giunti all’exploit finale di Hamas il 7 ottobre. Ad un attacco terroristico è seguita una rappresaglia che ha coinvolto principalmente civili, in assenza di un vero esercito da colpire.
Non chiamatela guerra.






