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Il valore del lavoro femminile oltre la maternità: riconoscere il contributo delle donne alla società

“Ogni donna cerca una stanza tutta per sé in cui poter vivere la propria vita.”

Virginia Woolf, A Room of One’s Own (1929)


Il rapporto tra maternità, lavoro e riconoscimento sociale è un tema che attraversa la storia contemporanea con continuità, oscillando tra conquiste, arretramenti e nuove forme di aspettativa culturale. Agevolazioni contributive e bonus economici sono strumenti importanti, che rispondono a bisogni reali. È giusto e necessario che chi sceglie di diventare madre possa farlo senza essere penalizzata professionalmente o economicamente. Non è dunque in discussione, qui, il valore del supporto, né il riconoscimento delle difficoltà che molte donne affrontano nel conciliare lavoro e maternità. Tuttavia, proprio perché tali misure hanno un impatto culturale oltre che pratico sollevano una questione più ampia: perché il contributo femminile alla società continua a essere riconosciuto soprattutto attraverso il ruolo materno? Oggi scelgo di volgere lo sguardo altrove, verso quella porzione di esperienza femminile che rimane spesso in ombra: le donne che lavorano, sostengono settori economici, si formano e si sostengono da sole, assumendosi responsabilità pubbliche e professionali, senza che ciò passi necessariamente attraverso la maternità. Se la maternità non è l’unico modo di “esser-ci” nel mondo, perché il riconoscimento sociale continua a funzionare come se lo fosse? Perché il lavoro delle donne, quando non è accompagnato dalla maternità, rimane spesso invisibile o secondario nel discorso pubblico?

TitiNicola, CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons
TitiNicola, CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons

Per affrontare questa tensione, occorre tornare alla distinzione tra ruolo e soggetto. Simone de Beauvoir, nel Secondo Sesso, mostra come la donna nella tradizione culturale occidentale sia stata rappresentata come “destinata” alla maternità e la sua identità veniva definita in base a una funzione biologica, elevata a obbligo sociale. Non essere madre significava, nel linguaggio implicito delle istituzioni, non aver completato la propria forma. Ciò che colpisce è quanto questa logica sia ancora attiva nei dispositivi contemporanei, anche quando si presentano come neutri, come nel caso dei bonus economici. La maternità viene riconosciuta come contributo alla nazione; il lavoro, l’impegno, la competenza, la costruzione quotidiana dei contesti sociali e professionali non ricevono lo stesso statuto simbolico. Eppure, una parte significativa di quei sostegni è finanziata anche attraverso i contributi delle donne lavoratrici, comprese quelle senza figli o che non intendono averne, che sostengono il sistema con il loro lavoro, la loro produttività e la loro tassazione, ma che non ricevono un riconoscimento analogo del loro contributo sociale.

 

Persiste l’idea, nota in Vita activa (H. Arendt), che il “lavoro” legato al corpo e alla riproduzione sia naturale, mentre “opera” e “azione”, cioè, creare mondi, istituzioni, significati, siano percepite come prerogative simboliche più elevate, storicamente attribuite agli uomini. La cittadinanza simbolica delle donne, allora, si attiva pienamente solo quando la loro cura diventa maternità. Anche quando lavora, studia, dirige, crea, insegna, l’immagine pubblica della donna resta ancorata a un ruolo e non a una soggettività. Tuttavia, il pensiero femminista della cura, da Carol Gilligan a Joan Tronto, ha mostrato che la cura non coincide con la maternità, ma è una pratica etica trasversale che concerne il tenere insieme relazioni, mediare, ascoltare, sostenere contesti fragili, sorreggere istituzioni, mantenere legami. Questa cura è presente nel lavoro quotidiano di moltissime donne, tra cui insegnanti, infermiere, manager, educatrici, giuriste, ricercatrici, lavoratrici autonome. Eppure, quando non assume la forma della maternità, resta simbolicamente marginale.


Non si tratta di contrapporre madri e non madri, ma di interrogare il presupposto culturale secondo cui la donna “vale” soprattutto se materna, come se la cura, e quindi la dignità sociale, si realizzasse pienamente solo entro la famiglia. Il problema non è sostenere le madri, ma sostenere solo la maternità come forma legittima di valore femminile. Se il contributo delle donne viene riconosciuto solo quando corrisponde a un ruolo, e non quando si esprime come presenza attiva nella società, allora il riconoscimento resta condizionale, non universale. Perché lo Stato, attraverso le proprie politiche, plasma immagini di valore e contribuisce a definire quali vite appaiono socialmente valide. Le norme producono identità, dice J. Butler, e quando lo Stato premia la maternità e ignora il lavoro femminile non materno, consolida un modello di società in cui la donna vale in quanto funzione, non in quanto soggetto.


Riconoscere il valore del lavoro femminile significa riconoscere soggettività e accettare che una donna contribuisce alla società non solo generando figli, ma generando legami, pensiero, cultura, organizzazione, comunità e per questo il sostegno alla maternità non può diventare l’unico linguaggio disponibile per riconoscere la dignità del femminile. Forse la domanda che dovremmo porci è come riconoscere pienamente tutte le forme di contributo che le donne portano al mondo, dentro e fuori la famiglia, dentro e fuori il lavoro visibile, dentro e fuori i ruoli che la cultura continua a chiedere loro di incarnare? E in questo ripensamento si misura la maturità di una società, nella capacità di dare valore a ogni modo di esistere.


Non ho voluto offrire una verità definitiva, ma uno sguardo critico che vuole aprire domande e non chiuderle.

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