Rappresentazione archetipica di Cenerentola
Etologi e zoologi attestano che la donna è l’unico mammifero a non avere l’estro; ossia, quando ciclicamente si ripropone il suo periodo fertile ella non emana alcun segnale odorifero che comunichi ai conspecifici dell’altro sesso di essere feconda e quindi disponibile all’atto riproduttivo. Diversamente, quando un animale domestico, e non solo, si trova nella fase dell’estro che segnala l’ovulazione e quindi la sua disponibilità riproduttiva, esso sprigiona dalle regioni genitali un odore penetrante che richiama i maschi della propria specie; si pensi, a tale proposito, alle gattine e alle cagnette dei nostri cortili.
Riflettendo sistematicamente su questa singolarità Lovejoy ipotizza che un’accidentale assenza di estro in una femmina di ominidi arboricoli sia all’origine dello sviluppo di un rapporto di tipo personalizzato. Cioè, un giovane maschio, non “dominante”, si “accompagna” temporaneamente, almeno all’inizio, con una femmina “dimenticata” a causa della sua ovulazione nascosta. Da qui una discendenza femminile priva di estro, ma parimenti fertile, che promuove forme di convivenza per fini procreativi, giacché solo rapporti prolungati nel tempo permettevano di fecondarla.
A seguito di questi rapporti personalizzati — che si prolungano per più generazioni — si sviluppa una divisione dei compiti che trasforma il maschio in procacciatore di cibo e la femmina in curatrice della prole. Legando evolutivamente bipedismo e formazione della coppia Lovejoy riesce a dar conto della nascita, nel tempo, della figura della “casalinga” durante la preistoria umana. Semplificando ulteriormente il discorso di questo studioso, la genesi del bipedismo scaturisce e s’impone come la migliore strategia riproduttiva.[1]
Se riflettiamo sul ruolo della donna come essere relegato alla preparazione del cibo e alla cura della prole ci accorgiamo che la rappresentazione archetipica di Cenerentola acquista qui una fondazione evolutiva. Anche se la perspicace e suggestiva ipotesi di Lovejoy dovesse rivelarsi scientificamente inadeguata, le testimonianze preistoriche, antropologicamente supportate, di una precoce divisione di ruoli tra uomo-cacciatore e donna-casalinga, non lasciano dubbi. Ruoli che oltre a legittimare una fondazione storica dell’archetipo di Cenerentola rilanciano pure la sua funzione, per certi aspetti, proto-archetipica. Funzione ancor più evidente nel passaggio da un’economia predatoria (caccia e raccolta) a una produttiva (l’addomesticamento di animali e la coltivazione della terra), con il graduale abbandono del nomadismo a favore della stanzialità.
Pentesilea e i limiti del nesso matrilinearità-ginecocrazia
Un’altra ipotesi, apparentemente in contrasto, ma, a ben vedere, diversamente posizionata sotto il profilo evolutivo, è quella di un’originaria promiscuità sessuale che rendendo impossibile stabilire l’effettiva paternità adotta una strategia di riconoscimento della prole di natura matrilineare caratterizzata da una risoluta ginecocrazia: la donna come figura dominante.
A tale proposito Jones aveva opportunamente rammentato che «La spiegazione più ovvia del matriarcato — avanzata per la prima volta dallo Schouten nel 1757 e accolta poi da molti esploratori — è che tale istituto sia nato dall’incertezza circa l’individuazione del padre».[2] Congettura che sembra porsi a fondamento del mito delle amazzoni e della loro affascinante regina: Pentesilea.
Questa ipotesi, seppure intesa in senso “regionale” e non come una fase evolutiva comune a tutta l’umanità, presta il fianco a due tipi di obiezioni: l’assenza di prove e l’infondatezza del nesso matrilinearità-ginecocrazia. Laddove questo tipo di discendenza esiste non implica necessariamente un’egemonia politico-sociale della donna.[3]
Cosicché, se Cenerentola sembra imporsi come un “archetipo” storicamente fondato e funzionale a tante società maschiliste; l’immagine opposta di Pentesilea rimanda almeno a due ipotesi genetiche: quella storica (un’ancestrale ginecocrazia) e quella psicologica (una fantasia compensativa). Cenerentola e Pentesilea come opposti polari non dialettizzabili e quindi non riducibili a sintesi.
Non è in mio potere, né mio obiettivo stabilire come e quando queste due rappresentazioni archetipiche si siano imposte. D’altra parte, altre ipotesi sono possibili.
Incidenze sincroniche e attuali degli archetipi di Cenerentola e Pentesilea
Oltre a una serie di tracce diacroniche gli archetipi di Cenerentola e Pentesilea sembrano presentare pure dei riscontri e delle incidenze, per così dire, sincroniche e massimamente attuali. Si pensi alla parziale e — non di rado totale — esclusione della donna orientale dalla vita pubblica, con il conseguente occultamento della sua femminilità attraverso le oppressive declinazioni dei veli e delle tuniche: foulard, chador e burqa.[4]
E, per converso, all’escalation della donna occidentale, palestrata e rampante, efficacemente documentata da alcune famose rappresentazioni cinematografiche: da Una donna in carriera (1988) di Mike Nichols a Rivelazioni (1995) di Barry Levinson, ruoli persuasivamente interpretati da Melanie Griffith, nel primo caso, e Demi Moore nell’altro. Quindi allo stato attuale sembra dominare una tendenza maschilista, nella società orientale, mirante a “cenerentolizzare” la donna e un’opposta e femminista, nella società occidentale, tesa a “pentesilearizzarla”.
Naturalmente non è questo il luogo per chiarire se la donna occidentale si è autoemancipata o deve gran parte delle sue conquiste alla liberalità dell’uomo o alle sue progressiste istituzioni democratiche. Per non dire della concezione marxista che vede l’ingresso della donna nel mondo del lavoro come la conseguenza di una formazione economico-sociale storicamente determinata. Emancipazione femminile cominciata nell’Ottocento a seguito del suo ingresso “coatto” nel ciclo produttivo per fini meramente economici: un tipo di manodopera più a buon mercato; esigenza amplificatasi nel Novecento a seguito dell’allargamento della base produttiva. Comunque, a prescindere dalle modalità, l’importanza di questa nuova situazione non può essere disconosciuta:
«È per mezzo del lavoro che la donna ha in gran parte superato la distanza che la separava dall’uomo, e soltanto il lavoro può garantirle una libertà concreta. Dal momento in cui cessa di essere una parassita, il sistema fondato sulla sua dipendenza crolla; tra lei e l’universo non c’è più bisogno di un uomo mediatore».[5]
Cenerentola e Pentesilea: immagini primordiali della psiche femminile
Ciò che qui mi preme chiarire è quale tipo di conoscenza e quali conseguenze comportano queste immagini primordiali, queste figure mitologiche che abitano la psiche femminile.
Gli “archetipi” di Cenerentola e di Pentesilea sono polarità che richiamano alla mente due luoghi specifici del volume L’anima delle donne di Carotenuto. Mentre Cenerentola reincarna e compendia, nella linearità della fiaba, il più complesso mito di Giunone, diffusamente analizzato in “matrimonio come fulcro dell’esistenza”[6]; Pentesilea è adombrata nel capitolo il “maschio non serve”[7], dove si parla specificamente di amazzoni. Ma prefigurazioni diversificate e talvolta confliggenti sono rintracciabili nella psicoanalisi, nella psicologia individuale e nella psicologia analitica.
Per quel che concerne la mia posizione, rispetto al significato del mito, tra i più arguti orientamenti interpretativi esemplarmente riassunti da Galimberti — l’interpretazione prelogica, sociologica, strutturalista, fenomenologica, simbolica, teologica, “autonoma” e psicoanalitica [8] —, io assumo l’ultimo, orientato in senso decisamente junghiano. Più analiticamente, ritengo il mito una simbolizzazione di contenuti inconsci e, conseguentemente, una preziosa mappa psichica che — esprimendosi attraverso le immagini — possiede la stessa dignità del pensare per concetti, modalità che consente, quand’è necessario, un rispetto della complessità non diversamente possibile.
Questo originario “pensare” per immagini non è un “pensare” pre-logico o, con gerarchia ribaltata, post-logico; bensì, la forma più adeguata di espressione di certi contenuti della psiche. Né bisogna intendere questo esprimersi per immagini come una modalità oppositiva o addirittura conflittuale con il pensare per concetti, piuttosto come risorse psichiche parallele e cooperative reclamate, di volta in volta, dalla complessità della cosa.
Va chiarito inoltre che, sebbene il termine complesso, a proposito di Cenerentola, sembra stridere con il suo fondamento archetipico, tale uso ha almeno una duplice giustificazione: innanzitutto, la locuzione complesso di Cenerentola, dopo l’omonimo best-seller, ha acquistato una risonanza mondiale; inoltre — e questa è cosa più importante — proprio Jung, nonostante dichiari e situi i complessi nell’inconscio personale, in più luoghi delle sue opere li descrive come radicati in quello collettivo.[9]
La nozione di sindrome, nosograficamente meno determinata, vuole qui consapevolmente indicare una fascia di tendenze, nel rapportarsi al maschile, più variegata: dalla psicologia “amazzonica” (l’uomo trattato come mero strumento impersonale di procreazione), accennata da Neumann e Carotenuto[10], fino alla più specifica virilizzazione della femminilità e alla conseguente conflittualità permanente nel rapporto di coppia, che designo come sindrome di Pentesilea, variamente adombrata in Freud, Adler e Jung. Escluso invece da questa caratterizzazione tutto ciò che va dal saffismo (omosessualità femminile) al complesso di Diana, inteso da Baudouin [11] come rifiuto della maternità e del matrimonio. Il limite estremo della sindrome di Pentesilea sembra rappresentato dal complesso di Brunilde, inteso come la ricerca da parte di una donna virile di un uomo più forte, sostituto inconsapevole di desideri sessuali inconsciamente rivolti verso il padre e frenati dalla barriera dell’incesto.[12]
Conclusioni e proposte
Da quanto appreso, possiamo concludere che Cenerentola e Pentesilea costituiscono un’intensa polarità simbolica che abita la psiche femminile. Costellazioni archetipiche, oppositive e compensative, che possiedono un triplice, interattivo, radicamento: nell’inconscio collettivo, personale e sociale.
Modalità femminili di rapportarsi al maschile che poste in essere nella loro irrelata assolutezza, omo–dipendenza la prima, omo–belligeranza la seconda, sono votate alla catastrofe. La donna che s’irrigidisce in uno di questi atteggiamenti lasciando che la sua personalità ne sia pervasa e irretita è una donna destinata a perdere sia la sua dignità che la sua autentica femminilità, precludendosi la felicità di coppia.
Nei successivi contributi, vorrei condividere con voi non solo le analisi delle opere di Freud, Adler e Jung, per comprendere le loro teorie sulla psicologia femminile e rintracciare prefigurazioni autorevoli su queste rappresentazioni archetipiche oppositive, capaci di promuovere atteggiamenti “patologici”, ma mostrarvi anche come sia possibile, anzi indispensabile, apporre a queste funeste costellazioni interiori una figura altrettanto simbolica, ma parimenti esperibile ed effettuale, rappresentata da Shahrazàd, eroina delle Mille e una notte. Spero mi seguiate in questa avventurosa esplorazione della psiche femminile.
[1] La teoria di O. Lovejoy, esperto in locomozione alla Kent State University (USA), è limpidamente esposta da P. e A. Angela, La straordinaria storia dell’uomo, Mondadori, Milano. [2] E. Jones, Saggi di psicoanalisi applicata, 2 voll., Guaraldi, Firenze,1971-72 (orig. 1951), citazione dal II vol., p. 153. [3] Matriarcato e potere delle donne, a cura di I. Magli, Feltrinelli, Milano, 1978 [4] Piccolo dizionario dell’Islam, a cura di R. Elger, Einaudi, Torino,2002 (orig. 2001), pp. 369–70. [5] S. de Beauvoir, Il secondo sesso, Il Saggiatore, Milano, 2002 (orig. 1949), p. 783. [6] A. Carotenuto, L’anima delle donne, Bompiani, Milano, 2001, p. 18. [7] Ivi, p. 309. [8] U. Galimberti, Dizionario di psicologia, Utet, Torino,1992; voce Mito, pp.584–7. [9] «L’immagine primordiale o archetipo è [...] anzitutto una figura mitologica. Se esaminiamo tali immagini più dettagliatamente, notiamo che esse sono in certo qual modo le risultanti d’innumerevoli esperienze tipiche di tutte le generazioni passate. Si potrebbero scorgere in esse i residui psichici d’innumerevoli esperienze vissute dello stesso tipo. Esse rappresentano una media di milioni di esperienze individuali e danno un’immagine della vita psichica». C. G. Jung, Opere, 19 volumi in 24 tomi (indici compresi), Bollati Boringhieri, Torino, dal 1969 a tutt’oggi (orig. 1958–1970); citazione dal vol. X, tomo I, pag. 352 (si tratta di Psicologia analitica e arte poetica). [10] E. Neumann, La psicologia femminile, Astrolabio, Roma, 1975 (orig. 1953), p. 15; e A. Carotenuto op. cit., pp. 313–4. [11] C. Baudouin, Psicoanalisi dell’arte, Guaraldi, Firenze, 1972 (orig. 1929), p. 56. [12] P. Gorgoni, P. Nuzzi, Di che complesso sei?, Editori Riuniti,Roma, 1997, pp. 20-1.
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