Astensionismo, sfiducia e propaganda: l’Italia si allontana dalla partecipazione democratica
- Rita Salomone
- 10 giu
- Tempo di lettura: 3 min
Gli italiani non votano più. Senza partecipazione, la democrazia è già morta.

Istituzioni e partiti hanno disarmato il voto
L’astensionismo è ormai il protagonista silenzioso di ogni tornata elettorale in Italia. Politiche, amministrative o referendum: il dato più evidente è la crescente disaffezione verso il voto. Un tempo atto di partecipazione civica, oggi è vissuto come inutile. Le cause? Disinteresse, ignoranza civica, sfiducia. Ma pesano anche gravi responsabilità politiche e istituzionali, un’informazione distorta e un dibattito pubblico svuotato.
Il caso dei referendum 2025 è emblematico. Anziché incoraggiare la partecipazione, il governo ha scelto la strada del silenzio, minimizzando l’appuntamento e alimentando l’astensionismo. Ancora più grave è stato il ruolo della Rai, che ha relegato il tema referendario al margine (appena il 2% di spazio nei notiziari). Quando un governo teme una società civile consapevole e ostacola l’accesso a un’informazione completa, non si parla più di disaffezione, ma di esclusione: i cittadini vengono spinti fuori dalla democrazia.
A tutto ciò si somma l’incoerenza della sinistra. Dopo anni passati ad assecondare le logiche del mercato e a smantellare diritti (come con il Jobs Act), oggi tenta di riallacciare i rapporti con il mondo del lavoro, parlando di precarietà e tutele. Emblematico che tra i quesiti referendari ci fosse proprio l’abolizione di riforme volute da quella stessa sinistra. E anche di fronte alla strage silenziosa dei morti sul lavoro, l’opinione pubblica resta indifferente. Il tema non fa rumore, non indigna. Così, anche quando la sinistra prova a recuperare la propria vocazione sociale, è ignorata da chi dovrebbe rappresentare. E la frattura si allarga.
Propaganda e analfabetismo: quando il voto perde senso
Nel vuoto lasciato da partiti senza visione e istituzioni mute, domina la propaganda. I programmi lasciano spazio a slogan ripetitivi, il confronto politico si riduce a teatrino. Nemici da additare, soluzioni facili a problemi complessi. La politica diventa spettacolo e i cittadini spettatori passivi. Il dibattito pubblico viene svuotato di contenuti e senso critico. In questo contesto, l’analfabetismo funzionale pesa enormemente: molti italiani, pur sapendo leggere, non riescono a comprendere testi complessi o valutare decisioni politiche. Nei referendum, dove serve consapevolezza, questo limite diventa decisivo. Il referendum sulla cittadinanza, ridotto a slogan e paure, ne è un esempio. Senza strumenti critici, si vota per percezione o si rinuncia. E la democrazia perde significato.
Una classe politica che somiglia sempre di più ai propri elettori in tutti gli aspetti più avvilenti, rifuggendo il concetto del buon esempio e spingendo invece verso la direzione del qualunquismo, della mancanza di approfondimento, della negazione del miglioramento. Una politica che parla lo stesso linguaggio del suo elettorato peggiore, assecondando la pigrizia e l’appiattimento mentale.
I giovani, i più lontani, ma i più coinvolti: senza partecipazione non c’è democrazia
Assenti alle urne anche i giovani. Sono i meno interessati alla politica, ma anche i più colpiti dai temi dei referendum: lavoro, diritti, cittadinanza. Eppure, sono esclusi dal linguaggio pubblico, ignorati dai media e mai coinvolti davvero. Senza una scuola che formi cittadini e una politica che li ascolti, rischiano di crescere convinti che partecipare sia inutile. Un errore grave, che mette in pericolo il futuro stesso della democrazia.
Il paradosso si manifesta dopo: quando le scelte fatte da pochi ricadono su tutti, arrivano le proteste. Sanità al collasso, stipendi fermi, diritti negati. Ma chi non vota, rinuncia a decidere. Nei referendum, il potere è diretto: niente deleghe, niente alibi. Disertare significa cedere sovranità, arrendersi al peggio.
L’astensionismo italiano non è solo un problema statistico, ma un sintomo profondo. Un Paese che non vota è un Paese che ha smesso di credere nel cambiamento. E se la responsabilità è anche individuale, non si può ignorare il peso di chi ha spento la passione civile: istituzioni, media, partiti. Recuperare fiducia è possibile, ma serve un’azione collettiva: più educazione, più trasparenza, più rispetto per l’intelligenza dei cittadini. Perché la democrazia, se non si coltiva, muore. E tutto comincia – o finisce – in cabina elettorale.