top of page

Una voce dalla Palestina. Intervista con Hamid Alfarra

Aggiornamento: 9 ott

Il conflitto in atto nei territori palestinesi ci ha purtroppo abituati ad abbassare l’asticella della tolleranza di fronte alle barbarie legate a episodi di occupazione armata. Spesso però, anche le narrazioni più aperte di chi non vive in certe zone resta una viziata da etnocentrismo, un bias cognitivo che porta a pensare di poter interpretare ogni fatto esclusivamente secondo la propria cultura. Un atteggiamento sicuramente alimentato dal radicato individualismo e la scarsa empatia che regolano la maggioranza dei nostri rapporti. È dunque fondamentale ridurre il più possibile la distanza tra fatti e rielaborazioni decontestualizzate, tra ciò che accade e quello che pensiamo possano essere cause ed effetti.

 

Abbiamo dunque contattato Hamid Alfarra, attivista e una delle voci della comunità palestinese in Italia per ottenere un punto di vista più diretto della situazione a Gaza e nei territori occupati della Cisgiordania. 

ree

Ciao Hamid, grazie per aver accettato questa intervista. Inizio con chiederti da quanto tempo sei in Italia, da dove arrivi e in che occasione sei arrivato qui?

 

Ciao! Grazie a te per l’opportunità di questa intervista. Sono arrivato in Italia circa 16 anni fa. Vengo da Gaza, in particolare dalla città di Khan Yunis. Il mio arrivo qui non è stato frutto di una scelta personale, ma legato a motivi di salute: sono infatti il donatore di fegato per mio fratello Moin Alfarra, che soffriva di cirrosi epatica. Inizialmente il nostro soggiorno doveva essere temporaneo: dopo l'intervento eravamo pronti a tornare a Gaza. Tuttavia, mio fratello aveva bisogno di controlli medici costanti e siamo stati costretti a rimanere più a lungo. Con il tempo, la situazione è cambiata radicalmente: a causa delle restrizioni e delle condizioni imposte dall’occupazione, non è stato più possibile rientrare a Gaza. È una storia lunga e complessa, fatta di scelte obbligate e di continue sfide.

 

Di cosa ti occupi in Italia?

 

Sono un procacciatore d'affari per aziende italiane nel settore dell'abbigliamento, con focus sul mercato del Medio Oriente. Facilito le collaborazioni tra produttori italiani e partner commerciali dell'area.

 

Con quante persone sei in contatto in Palestina?

 

Non si tratta di numeri. Ho la mia famiglia a Gaza City e Khan Younis. La nostra famiglia, Alfarra, è molto grande e conosciuta a Gaza. Ho perso il conto di quanti siano ancora vivi, quanti siano martiri o quanti siano sotto le macerie. La situazione è tragica, e ogni giorno è una lotta per la sopravvivenza. Molti dei miei parenti e amici d'infanzia non ci sono più, e il dolore di questa realtà è indescrivibile. Nonostante tutto, cerco di restare in contatto con chi è rimasto, sperando che la speranza e la forza non vengano mai meno.

 

Dove si trovano in questo momento?

 

Quelli che sono ancora vivi sono sfollati in tende nella zona vicino al mare, che si chiama Mauasi. Il resto sono martiri o sotto le macerie.

 

Com’era la vita nei territori occupati e nella Striscia di Gaza prima del 7 ottobre?

 

Nei territori occupati, la vita quotidiana era segnata da una continua tensione politica e sociale, con gravi impatti sulla libertà di movimento, l'accesso alle risorse e l'economia. La Cisgiordania era divisa in aree A, B e C, con restrizioni di movimento variabili a seconda della zona. L'area C, sotto il controllo israeliano totale, comprendeva gran parte del territorio, incluse le risorse naturali e le terre agricole. I checkpoint e i blocchi stradali limitavano fortemente la mobilità dei palestinesi, creando difficoltà nell'accesso al lavoro, ai servizi sanitari e all'istruzione. Gli insediamenti israeliani in Cisgiordania erano in continua espansione, sottraendo terreni agricoli e risorse naturali ai palestinesi, e creando scontri e tensioni tra coloni israeliani e comunità palestinesi. La violenza tra le forze israeliane e i palestinesi era una costante, con incursioni militari, arresti e repressioni di manifestazioni. Le proteste contro l'occupazione erano spesso brutalmente represse, alimentando paura e insicurezza, con arresti arbitrari e attacchi alle case palestinesi.

 

La vita a Gaza prima del 7 ottobre era molto difficile. Le persone vivevano sotto il blocco, senza abbastanza cibo, acqua o elettricità. La disoccupazione era altissima e molti non avevano lavoro. C’erano sempre rischi di attacchi, bombardamenti e massacri. Nonostante tutto, la gente cercava di andare avanti, aiutandosi a vicenda e mantenendo vive le proprie tradizioni. La vita era una lotta quotidiana, ma la speranza e la solidarietà non mancavano mai.

 

Come si svolge ora la loro vita quotidiana?

 

La vita quotidiana dei palestinesi, sia in Cisgiordania che a Gaza, è da sempre segnata da una continua lotta per la sopravvivenza. Fin dal periodo del mandato britannico nel 1917, i palestinesi hanno vissuto sotto occupazioni e restrizioni che hanno condizionato ogni aspetto della loro esistenza. La lotta per la libertà, la giustizia e il diritto alla terra è una costante che si ripete giorno dopo giorno, dalla colonizzazione britannica fino all'occupazione israeliana.

 

Oggi, però, la situazione è diventata ancor più tragica. Un attacco sistematico e continuato contro la popolazione civile palestinese non si limita a colpire gruppi armati, ma mira a distruggere intere famiglie, comunità e infrastrutture vitali — ospedali, scuole, rifugi. Con migliaia di morti civili, tra cui molti donne e bambini, e bombardamenti incessanti su zone residenziali, Gaza vive sotto un assedio che nega cibo, acqua, cure mediche e aiuti umanitari. La gente non si sente più solo sotto attacco: si sente sotto sterminio. La mancanza di vie di fuga, l’impossibilità di ricevere cure e l’indifferenza o l’impotenza della comunità internazionale amplificano la percezione che si stia tentando di cancellare un intero popolo. Per chi vive lì, questa non è più una guerra: è la fine di tutto ciò che conoscono e amano, è la negazione della propria identità e del proprio diritto a una vita dignitosa, è un Genicidio.

 

Di quali informazioni non parlano i media italiani?

 

I media italiani, come molti media internazionali, spesso si concentrano su eventi specifici o su aspetti selezionati della situazione israelo-palestinese, ma ci sono molte informazioni e sfumature che vengono trascurate o non approfondite a sufficienza. Ecco alcune delle principali cose di cui i media italiani parlano meno, o non parlano affatto:

 

  1. La vita quotidiana sotto occupazione, segnata da restrizioni, violenze e difficoltà economiche.

  2. Gli effetti del blocco di Gaza, che ha creato una crisi umanitaria con scarsità di risorse e accesso limitato ai servizi.

  3. Le sistematiche violazioni dei diritti umani, come arresti arbitrari e demolizioni di case.

  4. La resistenza non violenta, che include proteste pacifiche contro l’occupazione e gli insediamenti israeliani.

  5. Le difficoltà di donne e bambini, che subiscono violenze, traumi e discriminazioni.

  6. La "separazione" nelle città e villaggi, dove le restrizioni limitano gravemente la vita quotidiana dei palestinesi.

  7. Il ruolo degli Stati Uniti e delle potenze internazionali, che spesso supportano politicamente Israele, alimentando il conflitto.

  8. La condizione dei rifugiati palestinesi, che vivono in condizioni precarie nei campi profughi e chiedono il diritto al ritorno.

  9. L'erosione delle risoluzioni internazionali dell’ONU, ignorate quando Israele continua a costruire insediamenti nei territori occupati.

 

Queste realtà non vengono sempre trattate con la giusta attenzione nei media italiani, che spesso si concentrano solo su eventi violenti o conflitti intermittenti.

 

Quali notizie non riescono ad uscire dalla Striscia di Gaza?

 

Nonostante la censura sui social media e nei notiziari, ci sono veri eroi a Gaza: i giornalisti e anche i piccoli bambini con il telefono in mano, che con coraggio rischiano la loro vita ogni giorno per raccontare la verità. Hanno sacrificato tanto per portare le notizie al mondo. Posso dire con certezza che il mondo sa già cosa sta succedendo a Gaza: è un genocidio a tutti gli effetti. Le immagini, le storie e le testimonianze che riescono a uscire smascherano la brutalità dell'occupazione e raccontano una realtà inaccettabile, che non può più essere ignorata.

 

Quanto è realmente presente Hamas in quei territori?

 

Hamas è molto presente nella Striscia di Gaza, dove detiene il controllo politico, amministrativo e militare dal 2007. Gestisce servizi sociali, ospedali e scuole, ed è supportato da una forte ala militare, le Brigate Izz ad-Din al-Qassam. In Cisgiordania, invece, la sua presenza è meno visibile, operando principalmente in modo clandestino, con attività di resistenza contro l'occupazione. La sua popolarità tra i palestinesi è alta, ma è anche oggetto di critiche, soprattutto per la gestione di Gaza e il conflitto politico con l'Autorità Nazionale Palestinese in Cisgiordania. Tuttavia, vorrei sottolineare che il problema non è Hamas o qualsiasi altra fazione della resistenza: il vero problema è l'occupazione. Anche se Hamas dovesse cessare la lotta armata, nuove forme di resistenza continueranno a nascere finché l'occupazione non finirà.

 

Vedi ancora possibile la cosiddetta “soluzione due popoli, due stati”?

 

Come palestinese, dico che tutta la Palestina è la nostra patria, una patria aperta per tutti, a condizione che si rispettino la dignità e i diritti di ogni individuo, e che si viva in pace sulla nostra terra. Tuttavia, vedo la "soluzione due popoli, due stati" sempre più difficile da realizzare. Gli insediamenti israeliani in Cisgiordania continuano a espandersi, ostacolando la creazione di uno stato palestinese contiguo. La questione di Gerusalemme è irrisolta: Israele la considera la sua capitale indivisibile, mentre l'Organizzazione per la Liberazione della Palestina rivendica Gerusalemme Est come capitale del futuro stato palestinese. Il blocco di Gaza e la divisione interna tra Hamas e Fatah indeboliscono ulteriormente la possibilità di un'unità palestinese che possa negoziare una soluzione. Inoltre, la comunità internazionale sembra concentrarsi più sulla normalizzazione dei legami con Israele, piuttosto che sostenere concretamente la creazione di uno stato palestinese. Poi, non è semplice per la nuova generazione a Gaza, che ha vissuto il genocidio. Sfortunatamente, l'occupazione ha seminato odio e vendetta a Gaza, commettendo massacri e sterminando molte famiglie. Cosa raccoglierà questa generazione in futuro? Sarà un futuro segnato dalla speranza di giustizia e libertà, o continuerà a essere alimentato dal dolore e dalla rabbia? La risposta dipende dalla fine dell'occupazione e dal rispetto dei diritti di tutti i popoli coinvolti. Nonostante tutte queste difficoltà, la speranza in una soluzione a due stati non è del tutto scomparsa per chi crede in questa soluzione, ma sembra ogni giorno più lontana.

 

Le comunità con cui sei in contatto quale sviluppo auspicano?

 

Le comunità con cui sono in contatto, in gran parte, sperano in un futuro che porti a una vera giustizia, che non si limiti a soluzioni temporanee o a compromessi che non hanno mai rispettato i diritti fondamentali del popolo palestinese. Gli Accordi di Oslo sono stati visti da molti come una speranza per una soluzione pacifica, ma in realtà hanno portato a un rafforzamento dell'occupazione e alla divisione tra i palestinesi stessi, senza che venissero risolte le questioni centrali come Gerusalemme, i rifugiati, e i confini. Oggi, quindi, molte comunità auspicano un vero processo di pace che includa il diritto all'autodeterminazione, la fine dell'occupazione, e la creazione di uno Stato palestinese indipendente con Gerusalemme come capitale, in un contesto di giustizia e pari diritti per tutti.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

  • Instagram
  • Facebook
bottom of page