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Il negoziato dell’assurdo: Israele vuole la resa, non la pace

Doha, 24 luglio 2025. Il giorno in cui il processo di pace israelo-palestinese ha toccato vette talmente surreali da sembrare una distopia. Israele si presenta al tavolo negoziale con una condizione che definire provocatoria è poco: Hamas deve autodissolversi. Sciogliersi. Svanire. Rinunciare a sé stesso. Praticamente, firmare la propria scomparsa dalla storia politica palestinese e poi, magari, dire anche “grazie per l’opportunità”.

https://commons.wikimedia.org/wiki/File:P20250707DT-0284_President_Donald_J._Trump_Welcomes_Israeli_Prime_Minister_Benjamin_Netanyahu_to_the_White_House.jpg

La risposta di Hamas? Un “no” che non sorprende nessuno con un minimo di neuroni in attività. In cambio, Hamas propone — udite, udite — che le truppe israeliane si ritirino da alcune aree di Gaza. Non tutte. Solo alcune. Giusto un gesto di contenimento della brutalità. Ma per Israele questa è una provocazione, un affronto, una “condizione inaccettabile”. Inaccettabile come la pretesa che la controparte non si autodistrugga. Che scandalo.

 

Il problema è che questa non è una trattativa di pace: è una farsa in piena regola. Un’operazione di facciata in cui una delle due parti pretende la cancellazione dell’altra come prerequisito per negoziare. È come assistere a un matrimonio in cui uno dei due ha già le carte pronte per il divorzio.

 

Finché Israele continuerà a pretendere che Hamas rinunci a esistere, che Gaza si lasci governare da chi ha bombardato i suoi ospedali e decimato bambini e bambine attuando un genocidio in piena regola, che la popolazione palestinese si arrenda, insomma, senza condizioni, non ci sarà nessuna tregua, né pace, né futuro. Perché, ammettiamolo: lo scopo reale di Israele non è la sicurezza, né la convivenza, né tanto meno la pace. Lo scopo, oggi più che mai evidente, è annettere. Prendere tutto. Ripulire Gaza di ogni traccia araba e trasformarla in una meravigliosa residenza estiva per i coloni. Sabbia bianca, torrette di guardia e un bel resort sopra i luoghi del delitto di decine di migliaia di bambine e bambini palestinesi.

 

E Hamas? Hamas fa quello che può fare in questa cornice. Resiste, combatte, rifiuta. Non riconosce Israele perché Israele non riconosce il diritto dei e delle palestinesi ad autodeterminarsi. E se l’unica via proposta è quella della resa, allora è naturale che Hamas continui a sostenere la sua linea: una Palestina libera, araba, dal fiume al mare. Può piacere o meno ma è una risposta politica a un’aggressione esistenziale.

 

Eppure, c’è un punto dolente che Hamas, di certo, non può eludere. Un nodo etico e strategico che, prima o poi, andrà sciolto. Se davvero si vuole una Palestina libera e sovrana, allora dovrà essere anche laica. Non un obiettivo religioso, non un altro stato teocratico ma uno spazio politico aperto a tutte e tutti, dove la religione non sia codice di legge né criterio di appartenenza. Altrimenti si sostituisce un dominio con un altro. E si tradisce la causa stessa della libertà.

 

Ma torniamo a Doha, dove Israele continua a insistere: niente Hamas, niente negoziati. E allora sorge un dubbio atroce, ma necessario: Israele vuole davvero una tregua? O vuole solo fingere di cercarla per poi dire che è impossibile, che “con questi non si può parlare”, e intanto portare avanti la propria strategia di annessione totale e pulizia etnica a rilascio lento?

 

Perché una cosa è certa: se metti come condizione per la pace la sparizione dell’altro, allora non stai negoziando. Stai ordinando una resa. E stai anche scavando una tomba, casa dopo casa, famiglia dopo famiglia, bambino dopo bambina.

 

Intanto, a Gaza, si continua a morire. Non per fanatismo ma per fame. Non per ideologia ma per mancanza d’acqua. Non per odio ma per assenza di futuro. La vita, lì, come in Cisgiordania, è diventata una lotteria crudele.


Ancora domani e ancora oggi, in Palestina, come disse Ungaretti, si sta come d’autunno, sugli alberi, le foglie.

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