Il caos vitale dei giovani: una riflessione al cinquantesimo di Pasolini
- Michelle Grillo 
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Qualche sera fa, reduce da un lungo seminario sulle politiche giovanili, nel tragitto dal luogo dell’incontro alla stazione, ho proseguito i ragionamenti della giornata con un caro amico che era lì con me. Parlavamo di come rendere i giovani davvero partecipativi, integrarli, ascoltarli per davvero, e lui ha avanzato una proposta davvero radicale: in sede di elezioni, poiché i giovani hanno un’aspettativa di vita più lunga, il loro voto dovrebbe valere di più.
Lì per lì mi è sembrata un’idea da romanzo di Saramago: immaginate un mondo in cui il voto di un diciottenne vale più di quello di un settantenne. Gliel’ho detto, abbiamo riso, e poi ognuno è tornato a casa. Però, quell’idea un po’ balorda mi è rimasta incastrata in testa, e come spesso accade con le cose più stravaganti, mi ha ossessionato per un paio di giorni buoni. Mi ha riportato inevitabilmente a Pasolini, di cui ricorrono i cinquant’anni dalla morte, e non per caso. Proprio in corrispondenza di questo anniversario, infatti, se ne parla più che mai, e io stessa, di fatto, lo sto facendo.

Ma il punto è un altro: Pasolini ha parlato moltissimo dei giovani, e rileggere le sue parole – come queste tratte da Le belle bandiere. Dialoghi 1960-1965 (Roma, Editori Riuniti, 1996) – mi ha aiutato a guardare più a fondo la questione:
“I ragazzi e i giovani sono in generale degli esseri adorabili, pieni di quella sostanza vergine dell’uomo che è la speranza, la buona volontà: mentre gli adulti sono in generale degli imbecilli, resi vili e ipocriti (alienati) dalle istituzioni sociali, in cui crescendo, sono venuti a poco a poco incastrandosi.”
Sempre nei Dialoghi, scriveva: “Voi giovani avete un unico dovere: quello di razionalizzare il senso di imbecillità che vi dànno i grandi, con le loro solenni Ipocrisie, le loro decrepite e faziose Istituzioni.”

Pasolini è stato una figura inclassificabile, controcorrente, una creatura selvatica e in quanto tale indomabile, che ancora oggi elude ogni confine imposto dal discorso comune, alla stessa maniera dei giovani, mi piace pensare.
È stato lui stesso a regalarci lo sguardo migliore sul mondo giovanile, e cioè, che forse, più che provare a capirli, i ragazzi, servirebbe abitare i loro interstizi, come egli, di fatto, faceva, nelle borgate romane e nelle periferie abbandonate. Pasolini posava il suo sguardo sui giovani, raccomandando loro di rifiutare il linguaggio del potere, esortandoli a continuare a scandalizzare e a bestemmiare, a non farsi incasellare, affinché la cultura delle classi popolari non venisse sostituita da quella dominante (Pasolini, 1976).
Non posso che mettere tutto ciò in relazione a quanto sta succedendo nel nostro povero Paese: alle operazioni di controllo delle università da parte della politica, o al tentativo di “gestire” i movimenti giovanili di questi mesi – quelli che si sono mobilitati per la Palestina – e a chi si chiede come catturare quelle voci, quell’energia vibrante, in voti.

Metto in fila queste riflessioni e penso a quanto, diversamente, Pasolini amasse i suoi ragazzi di vita proprio perché indomiti, sporchi e arrabbiati. Riflettere su Pasolini mi ha portato alla conclusione che ogni tentativo di incasellare i giovani, inglobandoli nella rigidità delle istituzioni, non fa che svilirli. La loro forza, ciò che da sempre muove in avanti le società, è proprio lo splendido disordine che li abita. E proprio per questo, ogni iniziativa da parte dei padri di inglobarli nella struttura, imprigionare l’energia creativa di cui sono portatori, mettere ordine al caos che li anima, domare la forza delle loro idee, reprimere le pulsioni che abitano quell’età fragile e al contempo potente, risulta una violenta forma di oppressione.
Forse davvero, per capire i giovani, bisognerebbe accettare che il loro voto – simbolicamente o idealmente – valga di più. Perché per essere al loro passo, per stare dalla loro parte, bisogna avere il coraggio di essere radicali.






