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Decreto «sicurezza» e quesiti referendari: due visioni diverse della società

L’approvazione del decreto «sicurezza» a colpi di fiducia, alla Camera e in maniera definitiva al Senato, cade proprio nei giorni in cui ci si prepara per il referendum abrogativo previsto l’8 e il 9 giugno. Sembrerebbero eventi scollegati tra loro, se non fosse che entrambi mostrano due diverse visioni della società italiana e due approcci alla democrazia discordanti.

Oltrepier, CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons
Oltrepier, CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons

Il decreto, definito da Andrea Fabozzi, sul Manifesto 05, 06, 25, «la carta di identità della destra al governo», riduce gli spazi di libertà e dissenso, minando i diritti democratici: una svolta repressiva che di fatto colpirà i poveri, le vite al margine e le proteste e le lotte sociali. Con i cinque quesiti referendari, invece, a cui i cittadini sono chiamati a rispondere, i sindacati e la sinistra avanzano un’idea di democrazia aperta e inclusiva, al centro della quale sono riconosciuti i diritti dei lavoratori e dei migranti.

 

Inoltre mentre con l’iter legislativo del primo si è esautorato il parlamento, giustificandolo con la presunta emergenza securitaria e la convinzione che solo con la forza e l’inasprimento delle pene si può rendere i cittadini sicuri, quindi “liberi”. Con la proposta referendaria invece si chiede agli italiani di esprimere la loro forza attraverso il voto, con la certezza che sono la giustizia sociale, la solidarietà, l’accoglienza e maggiori diritti a garantire le libertà, l’assunzione di responsabilità, quindi la sicurezza.

 

È questa una visione della società che non si fonda sulla diffidenza e la paura, contrariamente alla visione che è alla base del decreto «sicurezza», che la immagina invece come una sorta di «Gotham city nazionale». È ancora Fabozzi a scrivere: «Ascoltando i senatori della destra, abbiamo scoperto che le nostre città sono sull’orlo del collasso criminale. Insicurezza diffusa, furti e scippi da parte di donne armate di figli, rivolte agli angoli delle strade e negozianti in preda al terrore, sparatorie, migranti sbarcati a legioni con l’unico scopo di commettere reati, case espropriate, anziani derubati, sfrattati e infine anche truffati.» Parole che mi hanno fatto ricordare il Kant di Risposta alla domanda: che c’è l’illuminismo?, che denuncia il modo in cui il potere si erge a tutore e supervisore dei cittadini mostrando loro, dopo averli instupiditi e rinchiusi in un girello, «il pericolo che li minaccia se tentano di camminare da soli.»

 

È una visione che parte da lontano. Il decreto «sicurezza» è l’esito di un processo che, nella storia italiana, ha più di trent’anni fa. Un processo che lentamente ha corroso diritti e libertà, e di cui anche la legge n. 91 del 1992, che ha innalzato da 5 a 10 anni il requisito di residenza in Italia per richiedere la cittadinanza, e il Jobs act, che ha peggiorato le condizioni dei lavoratori dipendenti, sono due tappe fondamentali. Ed è proprio su queste due leggi che interviene il referendum abrogativo dell’8 e il 9 giugno, il quale potrebbe essere un’occasione per arrestare il processo e invertirne la rotta.

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