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Il Jobs Act: riformismo ai danni dei lavoratori

Sono ormai tre decenni che, ogni volta che si parla di riforme del mercato del lavoro, quasi sempre si tratta di liberalizzazioni ottenute riducendo tutele e diritti dei lavoratori.

 

Il fatto che al governo ci sia uno schieramento di Centro Destra o di Centro Sinistra fa ben poca differenza. Il Jobs Act e altre riforme in senso liberalizzante, ma peggiorativo per i diritti dei lavoratori, è stato approvato 10 anni fa da una maggioranza di Centro Sinistra. Quando è una maggioranza del genere ad approvare simili leggi, diventa ancora più difficile costruire un’opposizione da parte del movimento sindacale, perché il consenso a queste riforme diventa quasi unanime, sia da parte dei politici di ogni schieramento, che della maggior parte degli intellettuali. Così, chiunque cerchi di organizzare una qualche forma di protesta viene bollato con l’etichetta infamante del populismo, che si appiccica facilmente addosso a chi di volta in volta non sia allineato con il pensiero unico.

 

Naturalmente in questi casi è più semplice far passare il ragionamento che queste riforme sono necessarie in un mondo del lavoro che cambia, ma le strade che portano verso l’inferno sono da sempre lastricate di buone intenzioni. La convinzione ideologica che ci sta dietro è che una disciplina più libera sui licenziamenti e sulla possibilità di ricorrere ai contratti a termine porti le aziende ad assumere più facilmente. Nel caso del Jobs Act la legge fu accompagnata anche da agevolazioni fiscali e contributive per incentivare le aziende ad assumere nuovo personale con queste nuove regole.

 

Per dirla in sintesi, il Jobs Act introduce, a partire da chi è stato assunto dopo il 7 marzo 2015 (data di entrata in vigore della legge), una tutela diversa dai licenziamenti illegittimi. Cioè abolisce nella pratica la reintegra per sostituirla con un indennizzo basato sull‘anzianità di servizio, con un minimo di 4 mensilità. A farla semplice, si tratta della monetizzazione di un diritto che genera anche una discriminazione tra chi è stato assunto prima del 2015 e chi dopo.

 

Questo apparato legislativo è stato contrastato senza risultati dai sindacati confederali CGIL e UIL (già in quell’occasione la CISL pensò di sfilarsi) e autonomi. Pur tuttavia, in sede legale, il provvedimento è stato parzialmente smontato dalla Corte di Cassazione su due aspetti fondamentali. Il primo è che la legge crea una discriminazione tra lavoratori assunti prima e dopo del 7 marzo 2015. Il secondo, è aver stabilito dei canoni fissi basati unicamente sull’anzianità di servizio per determinare l’indennizzo in caso di licenziamento, togliendo ogni discrezionalità al giudice che potrebbe decidere anche in base a criteri diversi.

 

Il fine benefico che si è propagandato con l’approvazione della riforma è che avrebbe favorito i contratti a tempo indeterminato. Forse qualcuno ha visto un film del genere nei 10 anni che hanno seguito la legge? La precarizzazione del mondo del lavoro è proseguita indisturbata, anche perché non è fatta solo di (mancate) tutele dal licenziamento, ma anche di un uso indiscriminato di contratti a termine, tirocini, stage gratuiti, voucher (che sono stati reintrodotti da questo governo), mancanza di salario minimo garantito e di ammortizzatori sociali universali.

 

Il Jobs Act fa quindi parte di un percorso legislativo e anche contrattuale che ha ridotto le tutele della classe lavoratrice e ne ha determinato l’impoverimento progressivo. Mi sembra difficile contraddire un’affermazione del genere. Magari sarà vero che questa è l’unica strada possibile al mondo d’oggi, ma quello che sta producendo è una generazione di lavoratori poco motivati e senza speranza, anche perché la precarizzazione ha frantumato la coesione sociale rendendo difficile ogni tipo di organizzazione solidale.

 

Non so se è ancora possibile invertire la rotta, per esempio andando a votare ai referendum dell’8 e 9 giugno che intervengono, tra i vari quesiti, proprio sulla disciplina dei licenziamenti e dei contratti a termine, ripristinando alcuni vincoli e tutele. È già un passo importante, ma di certo non è sufficiente, perché la ricetta per recuperare dignità nel mondo del lavoro è fatta dai molti ingredienti che ho citato prima e richiederebbe mobilitazioni di massa che costringerebbero la politica ad ascoltare i lavoratori dopo averli trascurati per anni. Ci vorrebbe un movimento con una grande partecipazione dal basso, che è l’essenza di una vera democrazia, ma al momento non vedo nulla del genere all’orizzonte, solo tanto risentimento e rassegnazione.

Spi Cgil Emilia-Romagna, CC BY 2.0, via Wikimedia Commons
Spi Cgil Emilia-Romagna, CC BY 2.0, via Wikimedia Commons

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