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Referendum sul lavoro. Quattro Sì per aumentare le tutele a favore dei lavoratori dipendenti

Ogni vera democrazia è composta da molti fattori e non può considerarsi compiuta solo nel rito periodico del voto legislativo e amministrativo. Uno di questi è la partecipazione dei cittadini al processo decisionale e alla formazione delle leggi. Tra gli strumenti a disposizione la Costituzione prevede il Referendum abrogativo, che si può considerare, se ben utilizzato, uno degli strumenti per l’esercizio della democrazia diretta.

 

Domenica 8 e lunedì 9 giugno, in concomitanza con il ballottaggio in alcuni comuni che non hanno visto l’elezione del sindaco al primo turno, i cittadini italiani saranno chiamati a pronunciarsi su 5 quesiti referendari. Quattro di questi sono stati depositati l’anno scorso dalla CGIL dopo la raccolta di firme certificate, hanno superato il requisito di costituzionalità, e riguardano varie regole che disciplinano il diritto del lavoro. L’intenzione di chi ha promosso questi referendum è di tentare di rimettere il lavoro tutelato al centro dell’agenda politica dopo anni di liberalizzazioni a favore del Capitale.

 

Seguirò un ordine logico, partendo dalla disciplina sui licenziamenti, senza alcuna intenzione di dare una gerarchia di importanza o priorità. Tutti i quesiti hanno delle conseguenze importanti, anche a un livello simbolico.

https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Spi_Cgil_Sciopero_Regionale_Emilia-Romagna_16_ott_2014_(051)_(15567974856).jpg
Spi Cgil Emilia-Romagna, CC BY 2.0, via Wikimedia Commons

Primo quesito, scheda verde, abrogazione della legge che disciplina i licenziamenti illegittimi per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015, il cosiddetto “contratto a tutele crescenti” introdotto dal Jobs Act. Votando sì, si reintroduce, in caso di licenziamento illegittimo, l’art. 18, però modificato dalla Legge Fornero nel 2012. Con la legislazione vigente, gli assunti dopo il 7 marzo del 2015, in caso di ricorso vinto in tribunale impugnando il licenziamento, hanno diritto solo a un’indennità economica basata sull’anzianità di servizio (criterio già cassato dalla Corte di Cassazione): una vera e propria monetizzazione del diritto. Con l’abrogazione di questa legge questi lavoratori avrebbero lo stesso trattamento di tutti gli altri, cancellando un’evidente forma di discriminazione.

 

Secondo quesito, scheda arancio, indennità in caso di licenziamento illegittimo nelle piccole imprese.

 

Attualmente i lavoratori licenziati illegittimamente nelle piccole imprese, cioè quelle fino a 15 dipendenti, hanno diritto solo a un indennizzo che non può superare le 6 mensilità di anzianità di servizio. Con il sì, sarebbe il giudice a valutare il giusto indennizzo. Questa norma, così come è scritta ora, sembra dare per scontato che le aziende con meno di 16 dipendenti producano poca ricchezza e che debbano essere trattate in maniera differente, con meno vincoli. Lasciare la discrezionalità al giudice potrebbe riequilibrare la condizione di svantaggio in cui si trovano i lavoratori dipendenti delle PMI.

 

Terzo quesito, scheda grigia, ripristino delle causali per giustificare un’assunzione a tempo determinato. La storia di questa norma è abbastanza lunga e complessa. Originariamente le aziende erano obbligate a dichiarare il motivo di un’assunzione a tempo determinato, legittima quando accompagnata da un progetto dai tempi definiti. Purtroppo (secondo il mio punto di vista), con gli anni la tendenza è stata di allargare sempre di più le regole per assumere lavoratori con contratti a termine, senza alcuna giustificazione del termine. Così ci siamo trovati con persone (persino nel pubblico impiego) che lavorano per anni con continui rinnovi senza un’assunzione a tempo indeterminato. Il decreto dignità del governo Conte 1 ha tentato di ripristinare una qualche regola reintroducendo la causale dopo un periodo massimo di 12 mesi, pena l’assunzione a tempo indeterminato. La conseguenza di questo provvedimento è che molte aziende hanno preferito assumere lavoratori nuovi ad ogni rinnovo piuttosto che confermare i lavoratori con contratto in scadenza.

 

Votando sì, si ripristinerebbero le causali per tutti i contratti a termine, a partire dal primo giorno di lavoro e non dopo 12 mesi. La filosofia che sostiene questo quesito referendario è che il contratto normale di assunzione sia quello a tempo indeterminato e che ogni soluzione alternativa debba essere giustificata.

 

Quarto quesito, scheda rossa, ripristino della responsabilità solidale del committente di un lavoro dato in appalto. Votando sì, si abrogherebbe la norma che esclude la responsabilità del committente (la ditta appaltante che affida un lavoro ad un’altra azienda appaltatrice) in caso di infortunio dei lavoratori che sono impegnati nei lavori dati in appalto. L’idea è che si creerebbe un deterrente per quelle aziende che ora, non avendo alcuna responsabilità legale nei lavori dati in appalto, tendono a seguire il criterio del massimo ribasso in fase di assegnazione dei lavori, mettendo la sicurezza in secondo piano. Nel mondo ideale dovrebbe bastare il codice etico di chi dirige un’azienda a imporgli di preoccuparsi delle condizioni di sicurezza di tutti i lavoratori che operano all’interno della sua azienda, compresi quelli che non sono dipendenti diretti, senza che ciò sia stabilito per legge. Purtroppo i fatti di cronaca ci mostrano che l’etica non sia affatto sufficiente e ce lo dimostrano gli incidenti mortali avvenuti in lavori assegnati in appalto anche da aziende importanti, in cui si fa fatica, nella catena di appalti e subappalti, a risalire a qualche responsabilità. Ripristinare una forma di deterrenza sembra l’unica strada per responsabilizzare i committenti.

 

I quattro quesiti referendari provano ad invertire una tendenza riformista unidirezionale, volta sempre a liberalizzare il mercato del lavoro e ridurre le tutele per i lavoratori dipendenti. Naturalmente, per invertire, o almeno per contrastare, questa tendenza, non sono sufficienti l’abrogazione totale o parziale di alcune leggi che regolamentano la disciplina sui licenziamenti, sui contratti a termine e sui lavori in appalto, ma sarebbe comunque un segnale significativo che gli elettori hanno la possibilità di affermare attraverso il voto.

 

Tutte le opinioni sono legittime, anche pensare che le tutele del lavoro vadano ridotte a vantaggio della crescita economica che poi si riverserà positivamente quasi in modo naturale a sostenere il benessere di tutti. È legittimo anche astenersi da questo voto referendario per raggiungere tale scopo, naturalmente. Purtroppo l’astensione ormai è molto più il sintomo della disaffezione e sfiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni che un modo alternativo di esprimere un’opinione. La sensazione diffusa che il proprio voto conti poco o nulla manifesta lo stato di malessere della nostra democrazia. Una buona partecipazione al voto di domenica 8 giugno e lunedì 9 giugno (e magari il raggiungimento del quorum) sarebbe un segnale positivo di un’inversione di tendenza e dovrebbe essere auspicato da tutti i politici, soprattutto se ricoprono cariche istituzionali importanti.

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