Costi o investimenti? La battaglia culturale comincia da qui
- Massimo Battiato

- 3 giorni fa
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Provate a pensare a un genitore che non stanzia alcuna risorsa economica per la formazione, l’educazione e la salute dei propri figli, ma poi gli acquista il motorino oppure lo smartphone ultimo modello. Cosa pensereste di questo genitore? Ebbene è ciò che effettivamente fa lo stato italiano e anche la comunità europea. Lo stato italiano taglia le spese sociali e dà incentivi all’acquisto di beni di consumo. La comunità europea permette di stralciare dal bilancio le spese per investimenti, in questo periodo vengono considerate tali soprattutto quelle per la difesa, dando per scontato che le spese sociali non siano investimenti, ma solo costi e quindi siano sacrificabili.

È proprio sull’interpretazione del significato delle parole investimenti e costi che vorrei impostare il ragionamento per sostenere che il cambiamento del sistema può avvenire non solo con una rivoluzione che si muove nella modifica delle condizioni materiali e dei rapporti di classe della società, nel senso marxista del termine, ma anche operando una “battaglia culturale” attraverso una visione diversa e alternativa della realtà. Una scala dei valori diversa, cominciando a discutere sul significato e l’uso delle parole.
Questa è un po’ la proposta politica dell’ex presidente dell’Uruguay, Josè Pepe Mujica, scomparso da pochi mesi, che ho introdotto in un mio precedente articolo in cui avevo trattato del pensiero del politico uruguaiano riguardo al tema del consumismo e al rapporto tra tempo e denaro.
Proviamo a ribaltare il senso comune con cui vengono usate le parole costi e investimenti dalle istituzioni nazionali e internazionali, dagli economisti e dalla maggior parte delle persone che sostengono questo sistema economico, consapevolmente o meno, quale il migliore possibile (o il meno peggio) e, comunque, quale unico modo di immaginare l’economia. Proviamo a pensare che gli stanziamenti del bilancio di uno stato siano indirizzati prioritariamente alle spese sociali, soprattutto sanitarie e dell’istruzione e che queste spese siano considerati investimenti e non costi. Alle spese meno necessarie in ordine di priorità sarebbero stanziati i fondi rimanenti, seguendo più o meno il seguente ordine: infrastrutture, aiuti all’economia e alle imprese, incentivi ai consumi. In base a questo ragionamento un popolo sano e istruito non sarebbe un costo ma un investimento. In fondo in una famiglia non si ragiona allo stesso modo? Quale famiglia sana considererebbe l’acquisto di un bene di consumo un investimento e le spese per salute e istruzione un costo?
Questa visione alternativa al modo comune di pensare potrebbe ricevere diverse critiche. La prima, più immediata, di essere un ragionamento populistico e utopistico. A questa critica la prima risposta è che il ragionamento è soprattutto culturale prima ancora che politico o economico. Punta a un cambio di mentalità. Inoltre questo tipo di ripartizione della spesa pubblica con priorità a quella sociale era la linea di politica economica di quasi tutti i paesi occidentali (e non solo) fino agli anni Ottanta e nessuno stato è fallito per questo. La seconda critica è che questo modo di stanziare le risorse drenate dal fisco favorirebbe sprechi e clientelismo. È facile rispondere a questa critica che nessuna persona sana di mente sarebbe a favore degli sprechi, della corruzione, del clientelismo, della spesa sociale come strumento di mero consenso e assistenzialismo. È chiaro che in questo modo non sarebbe incentivata la crescita economica e culturale di un paese. Infatti nella lista delle priorità ci sarebbero le spese sanitarie e per l’istruzione e ricerca, prima ancora che per l’assistenza sociale. Ma la risposta più semplice a questa prevedibile critica è che anche gli stanziamenti della spesa pubblica a favore delle aziende, dei consumi e dei poteri economici forti è una forma di clientelismo forse ancora più dannoso di quello a cui siamo abituati a considerare come tale perché sposta le risorse a favore di chi è già avvantaggiato e aumenta l’iniquità e l’ingiustizia del sistema. La giustificazione ideologica a questa iniquità è che solo favorendo gli investimenti da parte degli imprenditori e dei ricchi in generale è possibile che la ricchezza generata possa essere redistribuita. Purtroppo è da almeno un trentennio che tale teoria è disattesa dai fatti e, se qualche miglioramento qua e là c’è stato, non è stato certo per merito dello “sgocciolamento” della ricchezza.
In definitiva la scusa degli sprechi e del clientelismo non può essere una giustificazione a lasciare che l’esistente rimanga così com’è.
Dare un valore diverso a parole dal significato semplice come costi o investimenti, cambiare l’interpretazione che hanno nel pensiero dominante per restituirgli il significato più naturale e originario è l’obiettivo di una vera battaglia culturale che punti a un cambio di mentalità. In fondo che significato hanno queste due parole? Il termine costi si riferisce a delle spese per cui non si prevede alcun rientro economico o comunque un rientro inferiore alla spesa. Il costo diventa un investimento quando il rientro economico supera la spesa in una prospettiva di breve, medio o lungo periodo. Il ragionamento, dal mio modesto punto di vista, andrebbe esteso considerando non solo i parametri economici, ma anche quelli sociali e ambientali che sono strettamente legati a quelli economici a formare un tutto che dovrebbe essere sostenibile da tutti i punti di vista. Forse il problema attuale è che la prospettiva di lungo termine non è considerata nella maniera giusta e non ci si preoccupa abbastanza delle conseguenze future del nostro modo di operare a livello globale. È meglio provare a cambiare questa mentalità con una battaglia culturale prima di dover raccogliere i cocci a causa del fallimento della nostra società.





