Sabato 18 gennaio Israele ha approvato il cessate il fuoco a Gaza. Da domenica 19 e per i successivi 42 giorni, le armi dovrebbero tacere nella martoriata Striscia. Il prezzo: 45mila morti, che, per l’ultimo studio pubblicato su The Lancet sarebbero almeno 70mila. Nella speranza che la tregua possa proseguire, il condizionale sulla sua tenuta è d’obbligo.
Si tratta di un accordo a tappe, i cui termini non sono ancora ufficialmente noti. Secondo quanto si legge sul Times of Israel, Hamas dovrebbe procedere al rilascio graduale di 33 ostaggi. Non si conosce il numero esatto degli ostaggi sopravvissuti, i primi tre sono stati liberati domenica 19 gennaio. Israele dovrebbe invece rendere liberi circa mille detenuti palestinesi. La liberazione degli ostaggi è stata la più veemente richiesta della popolazione israeliana in questi 470 giorni di guerra. Netanyahu, nonostante le rigide opposizioni dei ministri Ben Gvir (dimessosi domenica 19 gennaio) e Smotrich, è stato quindi politicamente, e in un certo senso moralmente, costretto a cedere su questo fronte.
Per Israele le questioni strategicamente rilevanti riguardano le altre parti dell’accordo, ed è prevedibile che saranno difficilmente accettabili, almeno sul lungo periodo. Le forze armate israeliane (Idf) dovrebbero procedere con un graduale ritiro, iniziando dal Nord di Gaza per poi lasciare tutta la Striscia terminati i 42 giorni di cessate il fuoco. L’Idf dovrebbe ripiegare anche dal corridoio Filadelfi, lembo di terra lungo 14 km tra Egitto e Israele. In questo modo, i gazawi tornerebbero nelle proprie abitazioni, si inizierebbe a programmare la ricostruzione e si potrebbe iniziare un percorso per la formazione di un governo autonomo della Striscia, ovviamente senza Hamas. Proprio quest’ultimo aspetto, insieme all’abbandono del corridoio Filadelfi, è la questione che per Israele non renderebbe l’accordo sostenibile sul lungo periodo.

Secondo il Generale israeliano in congedo Amir Avivi, intervistato dall’analista Greta Cristini, è molto probabile che il cessate il fuoco duri solo i 42 giorni previsti dall’attuale accordo. Ciò è stato confermato direttamente anche da Netanyahu nel tardo pomeriggio di sabato 18 gennaio in un discorso televisivo. Il Presidente israeliano ha sottolineato che la tregua è transitoria e Israele si riserva la facoltà di riprendere i combattimenti alla minima avvisaglia di mancato rispetto degli accordi da parte di Hamas. D’altronde, l’imperativo strategico di Tel Aviv è fondamentalmente uno: garantire l’incolumità di Israele, e dunque degli ebrei. Non controllare Gaza né il transito di uomini e rifornimenti logistici per il corridoio Filadelfi comprometterebbe gravemente la sicurezza israeliana.
Israele non ha sradicato Hamas e ogni altra organizzazione terroristica presente a Gaza (compresa l’ANP, che per Israele è un gruppo terroristico), e non può farlo nel breve. Ciò implica che è molto probabile che Israele riprenda le operazioni, prolungando l’agonia dei civili gazawi. Dal punto di vista israeliano, per gestire di Gaza sul lungo periodo, vi si dovrebbe mantenere il controllo della sicurezza e del corridoio Filadelfi. Quando poi si dovesse formare un’amministrazione sulla Striscia, Tel Aviv dovrebbe impedire in ogni modo che essa sia unica, parcellizzandola in più tribù con a capo uomini a sé fedeli. Divide et impera di cesariana memoria.
Dalla temporanea soluzione negoziale appena entrata in vigore, esce perdente la linea Netanyahu. Il Presidente israeliano in primis dovrebbe rinunciare al controllo di Gaza e del corridoio Filadelfi. In secundis, al prolungamento della guerra, necessario ad evitare da una parte il proseguimento dei processi contro di lui, ma soprattutto l’esplosione della crisi interna tra quelle che il presidente israeliano Rivlin nel 2015 ha definito tribù - i laici, i nazionalisti religiosi, gli ultraortodossi, e gli arabo-israeliani. Tribalizzazione interna che è certificata dalla presenza di città-roccaforti di riferimento per ogni gruppo sociale, da una concezione e insegnamento completamente differenti dell’ebraismo e dunque da un’idea totalmente diversa di Israele. La guerra, però, non è riuscita a ricomporre le fratture sociali ed etniche interne.
L’accordo di cessate il fuoco palesa dunque che Netanyahu e le sue politiche sono sacrificabili per l’America, anche per Trump. Il testo dell’accordo è frutto dell’elaborazione dell’amministrazione Biden. La persuasione di Netanyahu sarebbe da attribuire proprio a Donald Trump, il quale avrebbe messo da parte la personale vicinanza con l’omologo israeliano. Scopo: riprendere e ampliare gli accordi di Abramo con le monarchie del Golfo – sospesi dal 7 ottobre - portando definitivamente dentro l’Arabia Saudita. Ciò a cui gli USA guardano, specialmente con Trump, è infatti il contenimento dell’Iran, per cui è necessario collocare i Paesi del Golfo sotto l’ala protettrice israeliana.
Tra poco meno di 42 giorni si vedrà se effettivamente prevarranno le ragioni americane - di cui inevitabilmente beneficerebbero anche i palestinesi – o se il cessate il fuoco verrà violato, con o senza un pretesto israeliano. In questo caso, da quanto affermato da Netanyahu, sembrerebbe che il supporto americano sarà totale, a detrimento della già martoriata popolazione civile di Gaza.