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Senza la mammina America, Israele sarebbe un cumulo di detriti (e Netanyahu alla sbarra)

C’è qualcosa di teneramente grottesco nella geopolitica mediorientale: ogni volta che Israele si caccia nei guai — militari, politici, morali — arriva, puntuale come una balia isterica, il Pentagono. “Ci pensiamo noi”, dice la voce a stelle e strisce, mentre l’F-22 fa il suo ingresso in scena come una rockstar in pensione che non ha capito che il tour mondiale è finito da un pezzo.

 

Ebbene sì: se gli Stati Uniti non fossero intervenuti militarmente in Iran in queste settimane, oggi Tel Aviv sarebbe una cartolina da Aleppo, versione 2016. Altro che “l’unica democrazia del Medio Oriente”: Israele senza lo scudo USA è un esperimento fallito di autarchia bellica. Perché quando non si ha di fronte una popolazione civile indifesa, ma un esercito organizzato, sovrano, e dotato di missili veri (non tubi di metallo lanciati da tetti sbriciolati), ecco che servono subito i marines, i satelliti e la retorica del “pericolo nucleare”.

 

Chiariamoci: l’Iran non è un gruppo armato con il logo stampato male sulle magliette. È uno Stato. Con un governo, un parlamento (sì, ci piaccia o no), un esercito regolare, e alleanze forti. A Teheran non si lancia una sassata e si scappa in motorino. A Teheran si risponde con artiglieria di medio raggio, radar russi, e una memoria storica lunga e ben documentata.

 

E infatti, quando lo Stato islamico ha cominciato a reagire – in modo serio – all’escalation israeliana, non c’è stata Iron Dome che reggesse. L’isteria è salita, i bunker si sono riempiti, e Benjamin Netanyahu ha mollato la narrazione del leader-soldato per aggrapparsi a quella del figlio impaurito: “Chiamate Washington!”. E la chiamata è arrivata. Il risultato? Bombe su Isfahan, discorsi trionfalistici al Congresso, e la rimozione istantanea del fatto che il primo ministro israeliano, in una democrazia normale, sarebbe a rispondere delle sue accuse penali in un’aula di tribunale. Ma si sa, nulla spazza via un’indagine come una buona guerra.

 

Perché alla fine è questo il meccanismo: Netanyahu sopravvive politicamente solo se c’è un’emergenza esistenziale da vendere al mondo e al proprio popolo. “O con me, o con l’Iran”, come se la complessità del Medio Oriente fosse un western girato male. Senza il supporto incondizionato degli USA, Israele oggi avrebbe dovuto fare i conti con la realtà: che non è invincibile, che il monopolio della sofferenza non gli appartiene per diritto divino, e che la legittimità si misura anche con il rispetto della legge internazionale, non solo con la potenza militare.

 

Ma guai a dirlo: guai a notare che l’esercito israeliano funziona solo se foraggiato da dollari statunitensi e coperto diplomaticamente da Washington nei consessi internazionali. E guai soprattutto a riconoscere che per una volta, di fronte a un avversario degno e organizzato, Tel Aviv ha tremato. Non era Gaza. Non erano ragazzini con le fionde. Era uno Stato con capacità reali, pronto a colpire con forza.

 

E lì, proprio lì, è entrata in campo la mamma. America, dolce mamma, che sistema i cuscinetti nella culla, cambia il pannolino geopolitico e riattacca il ciuccio strategico al suo figliolo indisciplinato. Perché Israele può tutto, basta che poi chi pulisce sia qualcun altro.


Finché Israele sarà una dependance del Pentagono e Netanyahu potrà scampare alla giustizia interna rifugiandosi in guerre preventive, la verità resterà prigioniera del racconto scritto nei think tank di Washington. Ma il mondo cambia. E prima o poi anche la mamma potrebbe smettere di rispondere al telefono.

https://commons.wikimedia.org/wiki/File:The_White_House_-_54437403066.jpg
The White House, Public domain, via Wikimedia Commons

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