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Referendum: quorum non raggiunto e strumentalizzazioni politiche

I referendum, come purtroppo era facile prevedere, anche se si erano visti segnali positivi nei giorni precedenti al voto, non hanno raggiunto il quorum e le leggi o parti di leggi che avrebbero abrogato rimarranno invariate.

 

Sulla scarsa partecipazione al voto ci sarebbe molto da dire, ormai si fa fatica a raggiungere il “quorum” persino nelle elezioni amministrative o politiche. Ragion per cui bisognerebbe rivedere questa regola del quorum per i referendum che era nata quando la partecipazione al voto era molto più alta, intorno all’80 per cento. Si potrebbe stabilire una soglia che sia proporzionata alla partecipazione alle ultime elezioni politiche. Certo, sarebbe auspicabile che i partiti facessero un lavoro sul territorio e nella loro base sociale per comprendere le motivazioni dell’astensionismo in maniera da  incentivare la partecipazione al voto e alla vita politica attiva. Ma questa, allo stato attuale, mi sembra un’utopia, non vedo alcuna volontà politica di procedere in questo modo, fa molto più comodo prendere i consensi dai pochi che ancora si recano alle urne e decidere per tutti.

 

Ma più che ragionare sulle ragioni dell’astensionismo, mi preme tornare sul merito delle questioni aperte con i quesiti referendari, tenuto conto che i quattro quesiti sul lavoro hanno ottenuto l’86 per cento di voti per il sì, cioè per l’abrogazione di norme che regolamentano i licenziamenti, i contratti a termine e la responsabilità sui lavori dati in appalto.

 

Si trattava di quesiti, quelli sul lavoro, che affrontavano argomenti ben precisi sui quali sarebbe stato più interessante e opportuno che fossero stati discussi nel merito. Così abbiamo provato a fare con le iniziative organizzate dalla CGIL, che è l’organizzazione sindacale che ha promosso questi referendum. I temi di fondo di queste discussioni, per i quali ci siamo visti attribuire la patente di ideologici, avevano a che fare con la monetizzazione dei diritti. Se e quante mensilità possono valere un posto di lavoro perso, se le aziende devono essere lasciate libere di utilizzare il contratto di assunzione più conveniente sul mercato senza dover rendere conto a nessuno, se si possono garantire condizioni di lavoro e sicurezza migliori anche ai dipendenti delle aziende appaltatrici.

 

Quanto vale un posto di lavoro perso? Quanto vale una depressione? Quanto vale la vita di un lavoratore che non fa ritorno a casa? Mi sembrano questioni ben poco ideologiche che hanno a che fare con la questione più generale, se il lavoro si deve considerare una merce come tutte le altre.

 

Di ciò si è parlato poco nel dibattito pubblico. I quesiti referendari sono stati usati in maniera strumentale come se si trattasse di un referendum di approvazione o disapprovazione di questo governo, nonostante questi quesiti intervenivano su leggi approvate da governi di tutti i colori e anche tecnici. Invece è stato affrontato dalla maggioranza come se fosse un attacco esplicito alla loro azione politica. E su questo l’opposizione gli ha dato una mano facendo un cattivo servizio alla causa referendaria. Tra l’altro questo gioco ha penalizzato maggiormente il quinto quesito, quello sulla cittadinanza, affrontato in maniera ideologica e non compreso dagli elettori.

 

Il risultato di questi due giorni dedicati al voto sono dodici milioni di persone che hanno espresso un’opinione ben precisa sul Jobs Act, sui contratti a termine e sugli appalti. Credo anche che siano la maggior parte dei lavoratori dipendenti ad essersi espressi in questo modo, visto che gli iscritti alla CGIL sono circa 5 milioni, pensionati compresi. Dodici milioni di persone che meriterebbero di essere ascoltate.


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