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Modello Albania, l'Europa dà il via libera, ma il rapporto Migrantes allarma

Il nuovo regolamento approvato dal Consiglio Ue su rimpatri e hub nei Paesi terzi apre la strada al rilancio del cosiddetto “modello Albania”, la strategia con cui il governo italiano punta a esternalizzare parte della gestione delle richieste di asilo. L’intesa consente agli Stati membri di creare centri in Paesi considerati sicuri e semplifica le procedure di rimpatrio per chi non ha diritto alla protezione internazionale.

Immagini messe a disposizione con licenza CC-BY-NC-SA 3.0 IT
Visita in Albania del Presidente Meloni - Governo.it

È quello che mancava al piano immaginato da Palazzo Chigi. Il centro di Gjader, progettato per accogliere e smistare migliaia di persone l’anno intercettate nel Mediterraneo, finora è stato un flop, trasformandosi in un semplice Cpr sproporzionato per il numero di transiti e rimpatri. Le pronunce dei tribunali italiani ne hanno bloccato più volte l’operatività, contestando l’assenza di garanzie rispetto ai Paesi di provenienza e alla tutela del diritto d’asilo.


Il nuovo quadro europeo riconosce come sicuri Stati prima esclusi e rafforza la possibilità di trattare le domande fuori dal territorio dell’Unione. Ma non chiude il dibattito e di fatto non risolve i problemi. A segnalare le criticità è il rapporto Migrantes, che definisce l’Italia “fanalino di coda” nell’accoglienza dei rifugiati e mette in discussione l’idea che l’esternalizzazione possa trasformarsi in un modello sostenibile. Il documento avverte sul rischio di una “vaporizzazione del diritto”, con centri in zone difficilmente accessibili da media, avvocati e società civile. Un sistema che accelera lo screening, ma svuota di sostanza le garanzie per coloro che andrebbero tutelati.


Ciò che sembra non essere chiaro è che velocizzare non significa necessariamente governare. Se l’obiettivo dichiarato è quello di gestire con efficienza gli arrivi, il fallimento dei trasferimenti verso l’Albania racconta un’altra storia. Costi enormi, ritorni limitati e uno scenario giuridico ancora incerto. Per non parlare poi dei dati sulle vittime nel Mediterraneo che mostrano che la deterrenza, da sola, non ferma chi fugge da guerre, violenze o collassi economici.


L’Europa vuole davvero costruire un sistema basato sull’allontanamento fisico e giuridico di chi chiede protezione? Oppure servirebbero canali regolari, investimenti sull’integrazione e un’assunzione piena di responsabilità condivisa? Il regolamento europeo fornisce uno strumento. Resta da capire se è quello adatto a un fenomeno che non è un’emergenza, ma un fenomeno strutturale del nostro tempo. La disperazione delle persone non verrà fermata dall'accelerazione della burocrazia e il rischio è che tutto questo sposti il dibattito sul tema nei tribunali aumentando i contrasti tra politica e giustizia.


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