La decisione della Rai di impedire ad Antonio Scurati di pronunciare il monologo sul 25 aprile, festa nazionale della liberazione dal regime fascista e dall’occupazione nazista; e Luciano Canfora, che si trascina curvo, aggrappato a un bastone, verso il tribunale di Bari perché accusato di diffamazione dalla premier Giorgia Meloni, pongono un’ipoteca su questa celebrazione, al punto da farci chiedere come cittadini:
sono vere le parole per cui il grecista viene querelato e quelle che danno il titolo al suo ultimo libro: Il fascismo non è mai morto?
Ha ragione Scurati quando sostiene nel monologo censurato che Meloni e i suoi sodali faticano a pronunciare la parola “antifascista” perché, tra il ripudiare il loro passato neo-fascista e cercare di riscrivere la storia, hanno indubbiamente imboccato la seconda via?
Lo straripante potere di Meloni contro un cittadino
Come un boomerang il monologo di Scurati è rimbalzato sui social. Letto ovunque, da intellettuali, giornalisti, studenti. Meloni in pratica è stata costretta a condividerlo nella sua pagina ufficiale di Facebook. Il che le avrebbe reso onore se non l’avesse usato per issare il suo 27% di fedeli a tempo, abbaiando, con il solito vittimismo, di essere stata in passato ostracizzata e censurata dal servizio pubblico. Contro la sinistra, che avrebbe montato un caso ad arte. Ma, cosa più grave, contro l’autore, accusato, con una mossa populista, di aver chiesto un compenso: «1800 euro (lo stipendio mensile di molti dipendenti) per un minuto di monologo» e di «propaganda contro il governo con i soldi dei cittadini.» Giustifica così la scelta della Rai. La quale, non spende niente per i suoi ospiti! E per dirla alla Gruber, anche i politici non è che facciano la fame! Tra l’altro il pretesto è falso. Un documento rivela che le ragioni della scelta dell’emittente pubblica sono state “editoriali”.
Per questo Scurati replica:
Il mio pensiero su fascismo e postfascismo, ben radicato nei fatti, doveva essere silenziato. Continua a esserlo ora che si sposta il discorso sulla questione evidentemente pretestuosa del compenso. Pur di riuscire a confondere le acque, e a nascondere la vera questione sollevata dal mio testo, un capo di Governo, usando tutto il suo straripante potere, non esita ad attaccare personalmente e duramente con dichiarazioni denigratorie un privato cittadino e scrittore suo connazionale tradotto e letto in tutto il mondo.
Questa, gentile Presidente, è una violenza. Non fisica, certo, ma pur sempre una violenza. È questo il prezzo che si deve pagare oggi nella sua Italia per aver espresso il proprio pensiero?
Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni (© European Union, 2024, CC BY 4.0, via Wikimedia Commons); Antonio Scurati (Scuola Holden, CC BY 3.0, via Wikimedia Commons); Luciano Canfora (Antonio Pignato, CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons)
Il 25 aprile antifascista: memoria e presente
Vale la pena anche per noi condividere e riascoltare il monologo che ha resistito:
Fascismo «categoria metafisica»?
È una fake. Così si difende Meloni da chi l’accusa di essere fascista. La Rai non censura. Il comunicato dell’Usigrai contro il controllo asfissiante sull’informazione da parte dei vertici e quello dei giorni scorsi contro il governo che fa dell’emittente il suo megafono sono fake! E i giornalisti indagati per le loro inchieste con la scusa del dossieraggio? E l’uso continuato di querele temerarie, per tornare a Canfora? Prassi trasversale, certo. In uso tra esponenti politici di diversi orientamenti, ma che con l’attuale esecutivo ha raggiunto picchi elevati, fino all’ipotesi, con un emendamento (per fiutare l’aria), poi ritirato, di incarcerare e multare i giornalisti che arrecano «un grave pregiudizio all’altrui reputazione.»
Proprio quella destra che dice di aver fatto della battaglia al politically correct e alla cancel culture la sua versione aggiornata dell’anticomunismo. Per Marcello Veneziani – il cui punto di vista di destra è stato da me discusso nel articolo precedente –, infatti, l’ideologia correttiva della realtà sostituirebbe l’utopia comunista, ereditata dalla sinistra postcomunista. Il cui cavallo di battaglia non sarebbe più l’anticapitalismo ma l’antifascismo. Un tempo, l’antagonista della sinistra era il capitalista, ora è il fascismo che da «categoria storica» diverrebbe «metafisica»: fascismo eterno, male assoluto. E questo dipenderebbe dalla visione storica della sinistra secondo cui l’Italia è nata nel 1945, dalla Resistenza e si è formata con la Costituzione. Un’Italia di recente elaborazione, dunque, a partire dalla lotta partigiana. Lì dove, il riferimento storico della destra è la civiltà romano-cristiana.
Marco Revelli, intellettuale di sinistra, risponde che la storia pregressa non è ignorata dalla sinistra, ma «letta criticamente come deficitaria, mentre la destra ne adotta una lettura apologetica.» La controreplica di Veneziani è che lo stesso fa la sinistra «nei confronti di ciò che è accaduto dalla Resistenza in poi.» Ma Revelli insiste che dopo il fascismo, il 1945 rappresenta per l’Italia una rottura, un nuovo inizio. Aggiungendo tuttavia che non mancano «elementi di continuità molto forti»; e osserva, a proposito di omologazione e politicamente corretto, che anche nel dibattito sulla guerra in Ucraina, chiunque metta in discussione la corsa agli armamenti e i canoni dell’alleanza atlantica, viene delegittimato e marginalizzato: «un limite gigantesco della nostra democrazia.» E possiamo aggiungere, dato che Revelli scrive mesi prima del 7 ottobre, che lo stesso vale per il dibattito sulla crisi in Medioriente: chi contesta il governo sionista israeliano viene tacciato di antisemitismo e gli studenti che protestano sono ridotti a delinquenti dalla premier e manganellati dalle forze di polizia.
Fascismo metafisico!? Non credo. La verità è che la destra usa questa categoria polemica per disinnescare l’antifascismo – attribuito solo alla sinistra (comunista!) – della nostra democrazia nata dalla Costituzione. Per far spazio a una democrazia “più minimal”, che si potrebbe definire afascista.
Il 25 aprile di Meloni
Gabriele Pedullà e Nadia Urbinati ne parlano in Democrazia afascista (marzo 2024): «La destra che ha vinto le elezioni politiche il 25 settembre 2022 condivide l’idea di democrazia minimalista e antisocialdemocratica, quella che in questo volume viene chiamata afascista.» La quale seppure non si presenta «nel linguaggio antico dell’autoritarismo fascista, ma in quello funzionalistico moderno, nel nome cioè di una “democrazia decidente”» interrompe le politiche sociali – Meloni nella conferenza stampa del 4 gennaio 2024, l’unica tenuta quest’anno (e stiamo ad aprile), si vantava dei “tagli lineari” alla spesa pubblica del suo governo; e attacca il Parlamento come sede di “inciuci” e di “compromessi”. Prevedibile che proponesse poi di cambiare la Costituzione per legittimare la sua tendenza a fare del potere una sua proprietà e non una res pubblica da amministrare. Dopotutto, sarà anche non fascista, perché non derivante direttamente dal fascismo storico, ma ha pur sempre origine nel fascismo post 1943.
Nel capitolo 3, Il 25 aprile di Giorgia Meloni, Pedullà e Urbinati delineano un breve excursus storico su Fratelli d’Italia: fondato nel 2012 da una scissione a destra del Popolo della Libertà, che riuniva tutte le formazioni nella leader di Silvio Berlusconi, tra cui la postfascista Alleanza Nazionale di Gianfranco Fini, a sua volta figlia del Movimento Sociale Italiano, nato dalle ceneri della Repubblica di Salò, espressione compiuta del Partito Nazionale Fascista. Gli eredi dei missini, però, preferiscono non palesare esplicitamente le loro opinioni sulla storia novecentesca e sulle loro radici ideologiche. «Definirsi con chiarezza imporrebbe di pagare un prezzo non trascurabile in termini elettorali», sia per i nostalgici che per coloro che li vota, «a patto che certe imbarazzanti parentele e ascendenze non vengano sbandierate troppo apertamente.» Per questo Meloni si prese la briga di spedire una letterina al “Corriere della Sera” in occasione del 25 aprile dello scorso anno.
Lo scopo era di chiudere una volta per tutte le polemiche, Meloni rivendica di essere democratica (“libertà e democrazia sono patrimonio di tutti”), non “nostalgica” del fascismo ed esentata dal doversi dire antifascista per essere democratica. In tal modo vorrebbe fare apparire anacronistico l’antifascismo, con l’aggravante di essere “arma di esclusione” da parte di chi usa «la categoria del fascismo come strumento di delegittimazione di qualsiasi avversario politico.» Ritorna l’identificazione di cui ha scritto Veneziani tra antifascismo, politicamente corretto, comunismo (=sinistra in generale). È il capolavoro retorico di rovesciamento della Meloni, secondo cui
«Occorre liberare la democrazia di quella “pregiudiziale”, riformando la Costituzione del 1948. Esattamente come aspirò a fare Almirante [fondatore del MSI, ndr.] dai primi anni della Repubblica: spazzare via la democrazia parlamentare, il retaggio dell’antifascismo che dominò l’Assemblea costituente.»
Meloni dedica il 25 aprile a “tutti gli italiani che antepongono l’amore per la patria a ogni contrapposizione ideologica”, rifiutandosi di accettare che non solo i comunisti, ma liberali, cattolici, repubblicani, con visioni di bene nazionale diversi, in “contrapposizione ideologica”, durante la Resistenza, si fecero “patrioti” e condivisero «la medesima “pregiudiziale antifascista”. Questo connubio tra patriottismo e antifascismo è la bestia nera di Meloni.» Ecco: l’idea di una patria aideologica, avaloriale, neutra, retaggio dell’idea di patria apolitica del fascismo storico.
Democrazia antifascista vs democrazia afascista
Nazione e patria non sono beni senza colore ideale e la storia della democrazia italiana non comincia pacificamente, senza una guerra contro nemici esterni (lotta di liberazione nazionale dai nazisti) e interni (lotta antifascista). La nostra Costituzione ci dice che il fascismo è il nemico sconfitto, contro cui la democrazia è sorta e si è imposta. E ci allerta a riconoscerlo e a combatterlo sempre, qualunque sia la forma che assume seppur non espressamente violenta e dittatoriale. Nessuna democrazia, antica o moderna, nasce pacificamente, nessuna persiste senza nemici e detrattori interni. Per Norberto Bobbio la democrazia è “sovversiva”: «sovverte la tradizionale concezione del potere».
Se però «tutte le democrazie hanno un alter perché nascono per costruire qualcosa che non si dà in natura, che si oppone al governo dei pochi e che si può facilmente perdere: l’autogoverno», c’è chi ritiene che solo le «democrazie che si sono liberate del loro alter, metabolizzandolo, hanno fatto un passo avanti rispetto alle democrazie che restano inchiodate a quel negativo originario.» Una lettura «astratta e tendenziosa», dichiarano Pedullà e Urbinati, che prese corpo nel liberalismo della Guerra fredda «come progetto volto a indurre le democrazie uscite dal nazifascismo a lasciar cadere le pregiudiziali ideologiche e a occuparsi essenzialmente di governare le società limitandone le richieste di intervento dello Stato e rendendole più rispondenti alle esigenze del liberalismo economico.»
L’ispirazione viene dall’economista Joseph A. Schumpeter secondo cui formazione di maggioranze per mezzo di competizione elettorale tra due partiti e un assetto che non disdegnava i leader plebiscitari servono a garantire 1) il primato della decisione (la funzione della democrazia è creare un governo) e pacificazione civile (il fine delle elezioni è il contenimento della partecipazione). Da questa concezione minimalista, membri della Trilateral Commission, nel 1975, trassero la conseguenza che la “crisi” della democrazia decidente (“governabilità”) proveniva dalla crescita di movimenti sociali di protesta, sindacati, partiti di sinistra o socialdemocratici, fenomeni intensificatisi nei paesi che si erano dati un ordinamento parlamentare in reazione a un passato autoritario e fascista.
«Le democrazie parlamentari erano esposte a una crescente interferenza dello Stato che finiva per debilitare l’autorità stessa e per legittimare un perpetuo attivismo dei cittadini, che chiedevano e contestavano. Secondo la Trilaterale, questo fenomeno era un’aberrazione della democrazia: un circolo vizioso che poteva essere interrotto soltanto correggendo il sistema istituzionale e rafforzando l’apparato repressivo.»
È quest’idea minimalista di democrazia come “governabilità” e comando, antisocialdemocratica, afascista, condivisa dalla destra di Meloni, l’alter contemporaneo della democrazia antifascista, il cui sistema istituzionale si regge su quattro pilastri:
Valori e principi. Uguaglianza e dignità della persona come promessa, per cui la Repubblica si impegna a rimuovere gli ostacoli e impedimenti, tra cui il principio maggioritarista.
Cittadinanza attiva. La democrazia non pensa che l’apatia sia indice di solidità e la politica un disturbo. La lotta antifascista, dovere civico e diritto primario, deve impegnare i cittadini a rendere possibili le condizioni della loro cittadinanza, contribuendo a rimuoverne gli ostacoli: cittadini senza lavoro, poveri, senza casa, senza scuola pubblica e un sistema sanitario funzionante non sarebbero in condizione di partecipare alla vita civile del loro paese.
I partiti. Essenziale per la democrazia è l’associarsi per similarità di idee, intenti e interessi dei cittadini, superando la loro debolezza operativa individuale e progettando il futuro. Nella democrazia antifascista le elezioni (non i plebisciti) sono una libera competizione tra partiti per la scelta consapevole di un’alternativa.
Dissenso e conflittualità. Partecipare significa situarsi in un luogo specifico del comune spazio politico, formarsi idee non necessariamente concordi con altri, sviluppare proteste sulla politica del paese. Per questo la democrazia è governo del dissenso e del conflitto e permanente produzione e soluzione di crisi. Presentare la crisi come catastrofe è una strategia per giustificare il contenimento del pluralismo, distanziare le istituzioni dai cittadini, accreditare l’idea che la democrazia antifascista sia troppo “militante.”
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