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Sotto l’ombra del fungo atomico: la responsabilità dell’uomo tra tecnica, guerra e filosofia

Il 6 agosto 1945, alle 8:15 del mattino, un bagliore mai visto prima cancellò Hiroshima. In un attimo, settantamila persone furono polverizzate; molte altre morirono nei giorni, mesi, anni a seguire. Tre giorni dopo, Nagasaki subì la stessa sorte. Il mondo non fu più lo stesso. Per la prima volta, l’essere umano aveva non solo costruito un’arma di distruzione totale, ma l’aveva anche usata. 

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Quel giorno iniziò l’era atomica: un tempo in cui il sapere tecnico ha superato la capacità morale di dominarlo. E ancora oggi viviamo sotto la sua ombra. La bomba atomica non è solo un fatto storico né solo un’arma, ma è il simbolo di una frattura tra l’ingegno umano e la sua coscienza. Se la scienza moderna nasceva con la promessa di emancipazione, l’evento di Hiroshima ha mostrato che ogni conquista può rovesciarsi nel suo contrario. Come Prometeo che ruba il fuoco agli dèi per donarlo agli uomini, l’uomo moderno ha rubato il segreto dell’atomo, ma mentre il mito parlava di punizione, oggi la pena è più sottile: viviamo in un mondo in cui ogni guerra potrebbe diventare la fine del mondo.

 

Filosofi come Günther Anders hanno letto questo paradosso in termini radicali. In L’uomo è antiquato, Anders scrive che siamo diventati capaci di produrre ciò che non siamo capaci di immaginare: sappiamo costruire una bomba che può distruggere il mondo, ma non riusciamo a “sentire” davvero l’enormità di ciò che abbiamo fatto. È il dislivello prometeico: la tecnica ha corso troppo, la coscienza è rimasta indietro. Così ci abituiamo alla possibilità dell’apocalisse, come se fosse una voce di sottofondo tra le altre e così la bomba diventa parte del paesaggio geopolitico, una minaccia latente, banalizzata. Qui, dove la realtà supera l’immaginazione, lo sguardo interiore è necessario perché dobbiamo coltivare la capacità di sentire ciò che facciamo. È necessario un ritorno alla responsabilità come esercizio quotidiano della coscienza, come ascolto profondo di ciò che ci lega agli altri e al tempo che verrà. Non possiamo più vivere divisi tra il potere del fare e il silenzio del pensare. Dobbiamo colmare quel dislivello, restituendo alla tecnica un orizzonte umano e all’umano una prospettiva futura senza minaccia di estinzione.

 

"Agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la permanenza di una vita autenticamente umana sulla Terra" leggiamo nell’ imperativo etico di Hans Jonas. La tecnica ha cambiato la natura dell’agire umano che oggi più che mai ripercuote il rischio fino alle generazioni future. Quindi la nuova responsabilità che invito ad esercitare non guarda solo all’immediato ma si proietta nel lungo termine. La bomba atomica ci obbliga a pensare come mai prima alla responsabilità verso chi non è ancora nato.

 

Già nell’antichità, i pensatori greci si interrogavano sul limite dell’agire umano. Aristotele, con il concetto di phronesis, indicava una saggezza pratica che guida l’azione tenendo conto delle conseguenze. Non basta sapere, bisogna sapere come, quando e se agire. La phronesis non è un calcolo, è una virtù: la capacità di discernere il bene in situazioni complesse. E di fronte alla potenza distruttiva della tecnologia, questa antica idea torna con forza proponendo di formare alla saggezza, non solo alla strategia, chi prende decisioni politiche e militari, coloro che hanno il dovere di occuparsi del cittadino che governano e del futuro che verrà. La bomba atomica è, in fondo, il volto moderno della hybris, una tecnologia che sfida la misura e che può condannare l’intero genere umano se non è accompagnata da un’etica del limite e dal senso di responsabilità verso il mondo e ogni essere vivente.

 

Ciò che manca oggi, mentre assistiamo a nuove guerre e genocidi, non è solo la diplomazia, è una visione etica e filosofica che sappia dire “fino a qui e non oltre” con la consapevolezza che un’escalation nucleare è dietro l’angolo. La filosofia è una necessità in quanto serve per pensare la tecnica, per rimettere al centro la responsabilità, per ricordare che potere e giustizia non sono sinonimi. Platone si chiedeva chi dovesse governare: i filosofi. Oggi sarebbe un successo aver messo su quelle poltrone coloro che conoscono il potere, ma anche la fragilità della vita, che sanno bene che ogni gesto, ogni decisione politica, ogni scelta tecnologica dovrebbe essere guidata dalla consapevolezza del proprio impatto. La bomba atomica ci obbliga a rispondere alla domanda più antica e più urgente: che cosa vuol dire essere umani se scegliamo la tecnologia per distruggere più che per costruire il futuro o per uccidere invece che per curare?

 

In questa lunga notte del mondo, mi chiedo spesso dove sia finita la nostra capacità di stupore, di timore sacro. Quando ho studiato per la prima volta Hiroshima, ero adolescente. Avevo tra le mani un sapere troppo grande, troppo freddo. Oggi che sono adulta, sento che la filosofia può ancora dare voce a un’urgenza silenziosa: quella di fermarsi, riflettere, avere il coraggio di non agire quando agire significa distruggere. Non è la paura che deve guidarci, ma la consapevolezza del limite. Perché l’umanità non ha bisogno di più potere, ma di più saggezza.

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