Se il presepe divide
- Marco Antonio D'Aiutolo

- 21 ore fa
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Il quotidiano di destra La Verità ha aperto ieri con il titolo: «I vescovi hanno dubbi pure sul presepe», leggendo come un cedimento identitario alcune riflessioni pubblicate da Avvenire sul modo di rappresentare oggi la Natività. Non sono credente, ma amo abbastanza il Natale e le sue espressioni simboliche, culturali e narrative da considerare sterili e ripetitive queste polemiche che tornano puntuali ogni dicembre, trasformando il presepe in un’arma ideologica e in un terreno di scontro culturale, evocando la perdita delle radici cristiane e dell’identità occidentale. Per questo non posso non inserirmi anch’io in questo annoso dibattito.

Quest’anno la polemica più eclatante ha riguardato Genova. I consiglieri comunali di Lega e Fratelli d’Italia hanno accusato la sindaca Silvia Salis per la decisione di non allestire il presepe tradizionale nell’atrio di Palazzo Tursi, sede del Comune, sostituendolo con un “Villaggio di Natale”. Si è parlato di “cancellazione del presepe” e di attacco alla tradizione cristiana. Salis ha respinto le accuse definendole “becero populismo” e chiarendo che il presepe non è stato eliminato, ma spostato a Palazzo Rosso, con tanto di benedizione dell’arcivescovo.
Purtroppo non si tratta di casi isolati. Come dimenticare le annose polemiche di Matteo Salvini, che non perde occasione di rivendicare il presepe come baluardo identitario contro il “politicamente corretto” e come arma da impugnare contro i migranti. Nel recente comizio a Bari, il 10 novembre, facendo passare l’idea che i migranti attentino alle nostre tradizioni, sul palco ha urlato: “fuori dalle palle”. Mentre su Facebook, ha polemizzato contro un presepe “inclusivo” a Bruxelles parlando di “un continente che rinuncia alle proprie radici, alla propria cultura, alla propria identità”.
Ma cos’è davvero il presepe? L’articolo di Avvenire dice tutt’altro rispetto alla lettura allarmistica de La Verità. Ricorda che il presepe non è un soprammobile stagionale, ma una “teologia domestica”, una narrazione viva della fede. La storia mostra che non è mai stato uniforme o intoccabile. Francesco d’Assisi, nel 1223 a Greccio, non mise in scena un museo della Natività, ma un atto vivo e partecipato. Attualizzare il presepe non significa tradirlo: se Dio nasce ai margini, i margini sono la grammatica del suo venire. Anche la scrittrice Chiara Frugoni, nel libro Il presepe di san Francesco. Storia del Natale di Greccio (2023), sottolinea che il presepe nasce come gesto creativo e pastorale in un’epoca segnata dalle Crociate. Secondo l’interpretazione ripresa da Il manifesto, Francesco compie un gesto dirompente: invece di andare a combattere per Betlemme, porta Betlemme in Europa. Greccio diventa un’alternativa simbolica alla guerra santa e un messaggio di pace. Tutt’altro, quindi, rispetto a una strumentalizzazione politica del presepe per renderlo un’arma ideologico-identitaria, settaria e divisiva.
Ma per parlare di pace è necessario parlare di giustizia e, nella fattispecie, di giustizia sociale. Dopotutto il Natale è questo: dal precristiano solstizio d’inverno con la nascita del Sol Invictus, a conclusione dei Saturnali, dove gli schiavi potevano banchettare con i padroni almeno per una volta all’anno, alla natività cristiana di Dio, che si spoglia della sua stessa divinità per rovesciare i potenti dai troni e innalzare gli umili, secondo l’antica preghiera cristiana, questa festa antichissima e ibrida, con le sue molteplice rappresentazioni, tra cui il presepe, ha un unico compito: il capovolgimento dell’ordine delle cose, un ripristino della giustizia sociale. Essa pertanto non si impone, nasce dal basso per implorare rinnovamento, accoglienza, inclusione. Se non serve a realizzare questi valori, ma a chiudersi in un settarismo identitario, se non rende la politica più sana e la società più matura, allora è una festa inutile e il presepe un mero soprammobile stagionale.






