Sbarra al Governo: la continuità perfetta tra sindacato e potere
- Davide Inneguale
- 1 giorno fa
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La nomina di Luigi Sbarra, fresco ex segretario della Cisl, a sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega per il Sud rappresenta più di una semplice decisione politica: è il suggello di un’alleanza ormai esplicita tra Governo e una parte del sindacalismo confederale. Non si tratta, come pure sarebbe auspicabile, di un dialogo costruttivo tra esecutivo e rappresentanza sociale, ma di una dinamica di cooptazione che svuota di senso la funzione critica del sindacato, piegandola a logiche di potere.

Per l’opposizione la nomina è un vero e proprio “premio fedeltà” a un (ex) dirigente sindacale che, nel corso del suo mandato alla guida della Cisl, ha scelto la linea morbida, se non apertamente compiacente, con l’esecutivo guidato da Giorgia Meloni. Non è un caso che la Cisl sia stata l’unica tra le grandi sigle a firmare il contratto delle Funzioni Centrali del pubblico impiego, ignorando l'opposizione di CGIL e UIL e spaccando così l’unità sindacale. Un contratto giudicato insufficiente da più parti, che secondo l’Unione Sindacale di Base (USB) ha determinato una perdita del 10% del potere d’acquisto per i lavoratori coinvolti.
La traiettoria politica di Sbarra conferma una tendenza preoccupante: la progressiva integrazione del sindacalismo moderato nel perimetro governativo, in un quadro che alcuni non esitano a definire “neocorporativo”. È in questa logica che va letta anche la spinta della Cisl alla legge sulla partecipazione agli utili aziendali, un’idea che, pur presentata come innovativa, rischia di legittimare un modello in cui il conflitto viene sterilizzato e il lavoro subordinato si trasforma in compartecipazione passiva.
Ma è la delega al Sud il punto che più preoccupa. L’assegnazione a Sbarra appare come espressione di una stagione sindacale accomodante e poco conflittuale, che rischia di perpetuare le vecchie logiche clientelari che da decenni soffocano lo sviluppo del Mezzogiorno. Servirebbero investimenti strutturali, politiche industriali sostenibili, salario minimo legale e occupazione di qualità. Non bonus, sussidi a pioggia o annunci di facciata. Invece, la nomina sembra rispondere a logiche di compensazione e posizionamento, più che a una reale volontà di affrontare le disuguaglianze territoriali che anzi continuano ad aumentare.
L’opposizione politica ha reagito con nettezza, ma è fondamentale che anche la società civile e i lavoratori non restino spettatori. La mobilitazione convocata da USB per il 20 e 21 giugno, con lo sciopero generale e la manifestazione nazionale a Roma, segna un primo passo importante per riaffermare la centralità del conflitto sociale e per difendere l’autonomia della rappresentanza del lavoro. Perché quando il sindacato diventa parte dell’apparato, i lavoratori restano soli e senza tutele.