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Quando il linguaggio si amplia al femminile. intervista a Vera Gheno

Il tema della violenza contro le donne passa anche attraverso una questione linguistica. Il consolidamento delle donne in posizioni lavorative e di potere prima esclusivo appannaggio maschile necessitano di un linguaggio nuovo, inclusivo o meglio, come propone la sociolinguista Vera Gheno, ampio. L’attenzione al modo di parlare, ai concetti e preconcetti è fondamentale per agire sulla realtà e il nostro approccio ad essa.


Vera Gheno - profilo/Facebook
Vera Gheno - profilo/Facebook

A cosa ci riferiamo quando si parla di inclusività in campo linguistico?

 

A dire il vero, io preferisco parlare di linguaggio ampio, perché, seguendo la lezione di Fabrizio Acanfora, ritengo che “inclusività” sia un concetto parziale, dato che continua a evidenziare una differenza qualitativa tra chi include e chi viene incluso, e che di fatto si trova a subire il processo di inclusione. Acanfora parla di “convivenza” piuttosto che inclusione, io di linguaggio ampio piuttosto che inclusivo. Per me il linguaggio ampio è un linguaggio che considera la varietà umana una risorsa, non un problema, e che tenta di dare la descrizione più obiettiva possibile, mantenendosi lontano da stereotipi e pregiudizi che di solito caratterizzano la nostra visione del diverso.

 

Cosa l'ha spinta ad occuparsi di inclusività della lingua con "Femminili singolari" dopo diversi studi sull'italiano dei social network? 

 

Una premessa: io non penso che quel libro fosse sul linguaggio inclusivo. Quel libro si occupa infatti dell'emersione del femminile nella lingua, e siccome il genere femminile rappresenta metà della popolazione mondiale, credo che non andrebbe considerato un esempio di linguaggio inclusivo, quanto piuttosto un'istanza che mira a un impiego meno pregiudizievole del linguaggio dal punto di vista del genere. Quel che è vero è che è stato sicuramente il volume che mi ha avvicinata alla questione del linguaggio ampio, perché è stata la prima volta che io ho scritto di femminismo e di una visione femminista delle questioni linguistiche. Ci tengo a precisare che il mio è sempre stato un femminismo con uno sguardo intersezionale, che quindi tenta di tenere conto di tutte le caratteristiche umane che possono esporre una persona alla discriminazione, e ci tengo anche a dire che mi reputo transfemminista, per cui penso che le persone transgender facciano pienamente parte del movimento femminista. Quindi, in prima battuta mi sono occupata di questioni linguistiche di genere, poi proprio in virtù di questo sguardo intersezionale, che ho sempre cercato di coltivare, abbastanza velocemente ho allargato lo sguardo verso il resto delle caratteristiche umane che possono appunto esporre una persona alla marginalizzazione. Alla fine, non è che occuparsi di lingua dei social network fosse così tanto differente, dato che quando io ho iniziato a occuparmi di quelle comunità si trattava pur sempre di comunità al margine, considerate socialmente e culturalmente poco rilevanti. L’esplosione dei social media come li conosciamo oggi era ancora di là da venire.

 

Ha avuto modo di verificare quanto un linguaggio più ampio possa influenzare atteggiamenti e comportamenti? 

 

Personalmente tendo a fare più considerazioni qualitative che non quantitative, vale a dire che descrivo fenomeni o cerco di capirli, ma che non faccio rilevamenti di natura statistica; tuttavia, esistono diversi studi che mirano a mostrare i vantaggi di un linguaggio più attento alla varietà umana per esempio in azienda o a scuola. Quindi mi appoggio ai dati di altri studiosi e altre studiose. Il primo che mi viene in mente è Pascal Gygax, dell'università di Friburgo In Svizzera, che ha fatto diversi studi quantitativi su questo ambito.

 

Come la violenza di genere può essere collegata alla lingua che utilizziamo? I social hanno un ulteriore ruolo?

 

Esiste uno schema che viene definito la piramide dell'odio; in cima ci sono ovviamente gli eventi più violenti, ma alla sua base stanno proprio le parole: stereotipi, pregiudizi, espressioni derogatorie, un sottobosco culturale e sociale che si estrinseca nella lingua e che contribuisce a costruire una determinata visione del mondo. Quando c'è molta violenza in questo sostrato, è come se si realizzasse il contesto ideale per far crescere discriminazioni più fattuali, per esempio nella scuola e nel mondo del lavoro, che talvolta poi degenerano fino a veri e propri atti di violenza. In altre parole, non c'è una separazione netta tra il mondo delle parole e il mondo delle azioni o della violenza agita. I due piani sono consequenziali. Di conseguenza, una violenza nell'ambito della parola può fare da volano alla violenza in altri contesti, mentre, viceversa, si può pensare di costruire dei circoli virtuosi agendo anche nel campo della parola. Come diceva Michela Murgia, il modo in cui chiamiamo le cose finisce per essere anche il modo in cui le trattiamo. I social richiederebbero una trattazione a sé, perché hanno delle caratteristiche strutturali che fanno sì che molte persone si sentano più predisposte a esprimere odio nell'ambiente digitale, dal momento che non si rendono conto che dall'altra parte dello schermo ci sono altri esseri umani. La persona commentata tramite social viene deumanizzata, viene percepita come una specie di cartonato di sé stessa. Quindi, qui si innestano disagi in generale già presenti nella nostra società a un contesto che è particolarmente favorevole a comportamenti linguistici disinibiti.

 

L'esperimento linguistico della schwa può davvero prendere piede o resterà un tentativo? È una forzatura che può piacere solo ai linguisti?

 

A dire il vero lo schwa non piace alla maggior parte dei linguisti e delle liste. Nasce in seno alle comunità LGBTQIA+ all'incirca una decina o quindicina di anni fa, e lì dentro ha sempre vissuto tranquillamente, prima di venire scoperto dall'ampio pubblico dal 2020 in poi. Quindi, per quanto mi riguarda, io non lo vedo assolutamente come una forzatura, ma come una soluzione a dir la verità molto interessante dal punto di vista linguistico, inventata dalle persone interne a determinate comunità per ovviare a quello che loro percepivano come un limite espressivo della nostra lingua, cioè l'impossibilità di avere delle forme linguistiche che non esprimessero il genere. Detto questo, è un esperimento che secondo me ha il pregio di funzionare da dito in un occhio, cioè di dare fastidio. Dà fastidio proprio perché segnala inequivocabilmente che alla nostra lingua manca qualcosa, che ci sono cose che la nostra lingua così com'è oggi non è in grado di esprimere. E questa è la sua importanza: dubito che diventerà mai la norma, ma il suo senso è proprio quello di rimanere fuori dalla norma e indicarne i limiti.

 

La grammatica descrive staticamente il funzionamento di una lingua o è la testimonianza della fase finale di una sua evoluzione? 

 

La grammatica viene costruita sull'uso linguistico; ovviamente, nella storia, si è fissata in un certo modo, se non altro perché c'è stato bisogno di usarla per insegnare la lingua in ambito scolastico. Ma la norma è elastica per definizione, magari non cambia velocemente quanto l'uso stesso, ma comunque si modifica nel tempo. Non c'è nessuna fase finale nella lingua, almeno finché una lingua è viva, cioè è parlata da un'ampia comunità di persone. Di conseguenza, ancora oggi vediamo cambiamenti nelle grammatiche. Cambiamenti che sono del tutto naturali e che non devono essere vissuti come una degenerazione linguistica. Sarebbe preoccupante se la norma si cristallizzasse perché piano piano porterebbe a una cristallizzazione della lingua intera. E il cristallo, si sa, è fragile.

 

Dietro il "suona male" di una parola declinata con una desinenza non usuale nel passato (come sindacA, ingegnerA, notaiA) si nasconde altro? Che cosa? 

 

Intanto, il giudizio di cacofonia è assolutamente soggettivo: a una persona può suonare male una parola, a un'altra persona un'altra parola. Non c'è alcuna razionalità nell'accusa di cacofonia ai femminili professionali. Fra infermiera e ingegnera e fra maestra e ministra dal punto di vista linguistico non c'è alcuna differenza: sono parole che esibiscono comportamenti morfologici simili. Quello che cambia è l'abitudine a sentirli; e il motivo è molto semplice: fino a poco tempo fa non esistevano ingegnere e ministre, di conseguenza le parole per definirle suonano esotiche. Ma al di là dell'impressione, si tratta di semplice mancanza di abitudine. Di certo, viviamo ancora in una società di stampo patriarcale, nella quale a tante persone i maschili suonano più di prestigio dei femminili corrispondenti. Si tratta di una percezione socioculturale che non ha nulla di razionale, ma che è piuttosto legata a una tendenza umana a resistere al cambiamento dentro e fuori dalla lingua, soprattutto dopo una certa età. Il cambiamento richiede sempre una certa fatica, e per questo a tante persone non piace l'idea che la lingua cambi. Ma la lingua cambia, e cambia tanto in base ai cambiamenti che avvengono nella società e nella realtà. A più ingegnere corrispondono più occorrenze della parola ingegnera, a più ministre più occorrenze della parola ministra. Per me è così semplice; mi rendo conto che non è così per tutte le persone, ma mi auguro che, a forza di parlarne, la questione dei femminili professionali si risolva in una generale accettazione del fenomeno.

 

Si ha quasi un timore di usare parole "nuove". È perché lingua dà forma al pensiero, alla realtà, e quindi nuove parole obbligano al confronto con una nuova realtà?

 

Credo che la questione alla base sia una generale scarsa tendenza alla riflessione metalinguistica. Questo, del resto, non ci deve stupire, perché non si affronta spesso questo tema a scuola… Quindi dov'è che dovremmo imparare a ragionare sulla lingua, a proposito della lingua? La lingua indubbiamente contribuisce a dare forma al pensiero e alla nostra visione della realtà; le parole rendono più visibili le cose che nominiamo. Ci sono di certo degli aspetti della realtà che fanno più paura di altri, per esempio tutto quello che ruota attorno al concetto di identità di genere. Però io ritengo poco intelligente cercare di mettere la polvere che ci disturba sotto il tappeto, evitando di nominarla, o mostrando di avere paura delle parole per nominarla. Facciamo i conti con la maggior complessità che ha la realtà oggi, rendiamoci conto che le parole nuove non sono nostre nemiche, ma ci servono proprio per comprendere tale realtà, e forse piano piano impareremo ad avere meno paura delle cose nuove come delle parole nuove.

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