La mattanza perpetua
- Ilenia D’Alessandro

- 6 giorni fa
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In Italia la violenza contro le donne non è un’emergenza: è una struttura portante, un ingranaggio antico che continua a macinare vite con la regolarità di un meccanismo ben oliato. La si può chiamare in mille modi: violenza di genere, femminicidio, patriarcato. Ma la parola che restituisce meglio la realtà, nuda e brutale, è una: mattanza.
La mattanza delle donne.
Una strage silenziosa che attraversa gli anni, si insinua nelle case, nelle relazioni affettive, nell’educazione che impartiamo ai bambini e alle bambine e che continua a produrre numeri incompatibili con qualsiasi narrazione rassicurante, che mostri anche solo un barlume di speranza di cambiamento.
Negli anni per cui disponiamo di serie ufficiali Istat (2019–2023), la quota di femminicidi oscilla con ostinata costanza: 32,1% degli omicidi totali nel 2019, 37,1% nel 2020, 34,3% nel 2021, 28,7% nel 2023. E se l’Istat chiude le serie nel 2023, i dati del Viminale e delle principali testate rivelano che il 2024 non segna alcuna rottura: 113 donne uccise, 99 in ambito familiare, 61 da partner o ex: 31% di femminicidi relazionali (99 su 319 omicidi totali), di cui un 19,1% di donne uccise da partner o ex. Anche il 2025, benché ancora in corso, segue la stessa traiettoria: già oltre 50 donne uccise da partner o ex entro l’autunno, un ritmo perfettamente compatibile con le percentuali degli anni precedenti.
Nessuna inversione.
Nessuna tregua.
Nessuna discontinuità.
La mattanza procede a velocità costante.
Non sono piccoli incisi statistici.
Significa che, in media, circa un terzo di tutti gli omicidi degli ultimi anni sono femminicidi: la forma più pura e ignobile della violenza patriarcale, quella che trasforma legami affettivi in terreno di possesso, controllo, annientamento.
E se rapportiamo i dati mediani al totale del numero di donne uccise (indipendentemente dal movente) vediamo che l’83–84% muore in ambito familiare o relazionale. Il privato come luogo più pericoloso, l’intimità come teatro dell’eliminazione.
L’omicidio, quando la vittima è donna, è quasi sempre femminicidio. Vengono uccise, insomma, in quanto donne, in quanto bestiame di proprietà.
Il fil rouge è netto: la violenza non è un’eccezione, è un sistema. Non un cortocircuito di follia individuale, non l’ennesimo “raptus”, non una collezione di mostri. È una struttura culturale che forma i bambini all’idea di potere e possesso e le bambine alla disponibilità e alla gentilezza. È dentro le battute, i silenzi, il modo in cui si educa alla virilità come dominio e alla femminilità come accomodamento. È nella scuola, che ancora interviene troppo poco, nelle famiglie, che delegano, nel linguaggio quotidiano, che scherza sulle lacrime maschili come segno di femminilità e che assimila caratteristiche maschili alle donne che mostrano un carattere forte (la donna con le palle, per fare un esempio).
È dentro questa stessa struttura che si consuma una ferita ancora più occultata: la violenza contro le donne trans. Invisibili nelle statistiche ufficiali, cancellate dai titoli, relegate ai margini dell’immaginario pubblico, le donne trans subiscono una violenza che intreccia misoginia e transfobia. Molte vengono uccise nelle relazioni affettive, come le donne cis, altre da sconosciuti che puniscono ciò che percepiscono come una deviazione dall’ordine di genere. E quando muoiono, la loro identità viene spesso distorta, negata, ridicolizzata. È patriarcato anche questo: stabilire chi merita di essere riconosciuta come donna e chi può essere sacrificata nel silenzio. Le donne trans non sono un capitolo a parte: sono parte della stessa mattanza, solo esiliate nelle retrovie della percezione. Non nominarle significa riprodurre, persino dentro la lotta contro la violenza di genere, una gerarchia che tradisce le più vulnerabili e rinvigorisce il patriarcato stesso.
Chiamare tutto questo mattanza significa dare un colpo di martello al muro. Significa riconoscere che, quando un fenomeno produce numeri simili anno dopo anno, non si tratta più di casi isolati, ma di una macchina sociale che funziona esattamente come è stata progettata. Una macchina che costruisce uomini convinti di poter disporre delle donne e donne che devono sperare di sopravvivere all’amore.
Eppure, la mattanza non è una fatalità. È una scelta collettiva che la società continua a fare ogni volta che non investe nell’educazione di genere fin dalla scuola primaria, ogni volta che non forma insegnanti e genitori, ogni volta che archivia la violenza come tragedia privata, ogni volta che si discute di femminicidio come “allarme” e non come struttura. La parola patriarcato resta scomoda, come se pronunciarla fosse un atto ideologico e non la constatazione di un modello che produce esiti misurabili, anno dopo anno, cadavere dopo cadavere.
Per spezzare questa mattanza non basta il diritto penale, non bastano gli interventi dopo, non bastano i centri antiviolenza se continuiamo a riempirli senza interrogarci su cosa produce la domanda. Serve un’educazione affettiva e sentimentale che smonti la grammatica della virilità dominante, serve che “i maschi” imparino a riconoscere il privilegio strutturale che respirano e che spesso non vedono, serve che le bambine siano allevate non alla sopportazione, ma alla lotta e alla libertà.
Fino a quando non faremo questo salto culturale, i numeri, ufficiali o giornalistici, trimestrali o annuali, continueranno a dirci la stessa cosa: la mattanza non è un’eccezione.
È la normalità.
Una perpetua, feroce normalità.

Nota della Redazione:
I nuovi risultati Istat 2025 sono stati aggiornati mentre il presente articolo era già in programmazione.
Aggiungiamo in questa nota il link del comunicato stampa che invitiamo a visitare:






