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Quale migrazione ci manderà all’inferno?

Your countries are going to hell because of migration ” sono le freschissime ed agghiaccianti parole espresse poche ore fa da Trump durante la conferenza alle Nazioni Unite. Il mentore dei sovranisti europei che attacca l’Europa dal pulpito dell’Assemblea al Palazzo di Vetro durante il suo sermone fiume. Tra la mole di calunnie e falsità snocciolate dal nuovo sacerdote della destra estrema mondiale, c’è spazio per elogiare le sue doti straordinarie nell’interrompere guerre, così come il rinnegare le evidenze scientifiche del cambiamento climatico definendolo una mostruosa falsità.

 

Circoscrivendo l’analisi agli strali sulle politiche migratorie europee, ed osservando il cortile italiano, probabilmente Trump qualcosa di vero sulla migrazione lo dice, ma non è quello che lui o i vari Salvini e Meloni vorrebbero sentirsi dire: la migrazione ci porterà probabilmente all’inferno, ma se ciò avverrà, sarà dovuto agli effetti dell’emorragia migratoria degli italiani in fuga all’estero.

 

Eh già perché mentre le cronache nostrane sono polarizzate, circa il tema migratorio, a disquisire sui flussi in entrata, pochissima attenzione si dà all’analisi di quelli in uscita.

 

Per riassumere il quadro fosco dell’inverno demografico italiano, si osservi il rapporto redatto da Istat per la Commissione parlamentare di inchiesta sugli effetti economici e sociali derivanti dalla transizione demografica in atto. Il rapporto, nonostante sia stato presentato alla Camera dei deputati il 1° aprile 2025 non scherza affatto su come l’Italia abbia perso già quasi il 10% della sua popolazione dagli anni duemila, ma questo tracollo demografico è ancora poco percettibile grazie ai flussi migratori in entrata che hanno contribuito a mantenere la popolazione nazionale nel complesso stabile.

 

Il rapporto evidenzia come, “dopo la contrazione dei flussi in entrata registrata nel periodo pandemico e post-pandemico, le emigrazioni verso l’estero riprendono quota, fino a toccare nel 2024 il nuovo record di 156mila individui” [cifre che non si toccavano dagli anni settanta].

 

Dal 2014 al 2024 a fronte di 1,2 milioni di italiani emigrati, sono meno della metà quelli che sono rimpatriati. Il rapporto snocciola con brutale lucidità come, osservando più da vicino chi parte, nel decennio scorso sono proprio i giovani quelli emigrati: un terzo ricadeva nel gruppo tra i 25 e 34 anni, di cui il 37,7% era in possesso di laurea. Facendo dunque un bilancio tra espatri e reimpatri di giovani nello stesso intervallo, l’Italia ha perso comunque oltre 87mila giovani laureati, a vantaggio di paesi quali Germania e Regno Unito.

 

Se poi alla visione d’insieme nazionale, si aggiunge l’osservazione per aree geografiche, si scopre che mentre al nord la fuga di cervelli italiani all’estero sia in buona parte controbilanciata dalle migrazioni interne di italiani da altre regioni, al sud la situazione è ancora più drammatica.

 

C’è un accattivante tending topic cavalcato dalle destre e diventato jingle a Pontida la settimana scorsa, è quello della presunta grande sostituzione. Piegando la logica e mal interpretando la demografia, a quanto pare ci sarebbe un “disegno” di qualche potere forte che spingerebbe per un rimpiazzo della popolazione italica, con popolazione immigrata.

 

Appare irrealistico immaginare una regia occulta dietro la fuga degli italiani all’estero e l’ipotetica sostituzione etnica scientemente voluta da qualche grande manovratore. Non è che forse più che ipotizzare forze esogene che spingono migranti in Italia, non si potrebbe immaginare che un paese con un mercato del lavoro incapace di offrire salari adeguati e stabili, con paghe corrispondenti i livelli di istruzione, spinga ad attirare lavoratori sottopagati ed a respingerne di più qualificati?

 

A propendere per responsabilità endogene è il succitato rapporto Istat che spiega come uno dei principali driver di questa ipotetica “sostituzione etnica” sia proprio il lavoro, o meglio, la sua mancanza. Nonostante la narrativa corrente che vuole l’Italia a trazione Meloni come il nuovo modello di stabilità europea, nel rapporto, in un focus specifico sui cambiamenti demografici nell’occupazione, si evince come, se da una parte in effetti, “nel 2024 l’occupazione è aumentata per il 4° anno consecutivo”, d’altro canto “la crescita nell’ultimo anno è dovuta in otto casi su dieci agli ultracinquantenni”.

 

Negli ultimi venti anni se da una parte l’occupazione complessiva è aumentata del 7,3%, questo valore è la risultante tra un aumento di oltre 6 milioni di occupati over 35 anni (di questi, oltre 5milioni sono ultracinquantenni), ed un corrispondente calo di due milioni di occupati tra i giovani di 15-34 anni.

 

Si potrebbe argomentare che, con una popolazione in forte invecchiamento, sia fisiologico che ci siano meno giovani nel totale della popolazione occupata. Questo è vero ma solo in parte visto che, osservando i valori percentuali, se da una parte la percentuale di ultracinquantenni occupati è aumentata di ben 17,1 punti percentuali (passando dal 20,2 al 37,3%), quella dei giovani tra 15 e 34 anni occupati è crollata di 11,7 punti (passando dal 34,2% al 22,5%).

 

I fenomeni migratori plasmano i paesi che diventano la sintesi dinamica dei flussi di persone in partenza ed uscita. Governare questo fenomeno richiederebbe una visione politica organica che acceleri i processi di integrazione per chi arriva, e che si occupi di far sì che la popolazione autoctona ci resti. Perché non si può stigmatizzare gli immigrati per ragioni economiche in arrivo in Italia, quando poi è proprio l’Italia uno dei paesi sviluppati a più forte emigrazione per ragioni economiche.

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