Pace e democrazia: l’arte fragile di coabitare il mondo
- Anna Lorenzini

- 16 giu
- Tempo di lettura: 3 min
Il 2 giugno non è solo un giorno di memoria, ma un esercizio di pensiero. Non celebriamo un passato chiuso, ma un’idea aperta: la Repubblica come forma vivente della libertà, della dignità, della coesistenza. E questa idea vive solo se viene pensata, custodita, incarnata ogni giorno. Parlare di pace, democrazia, Costituzione non significa limitarsi a evocare principi scritti: significa riconoscerli come realtà da costruire, da correggere, da rifondare continuamente. In fondo, pace e democrazia sono due volti della stessa esigenza: quella di abitare il mondo insieme, senza annullare l’altro. Ecco il mio postulato: se la pace è la capacità di riconoscere l’altro come interlocutore, la democrazia è l’arte di rendere questo riconoscimento una forma di vita condivisa, una struttura del vivere civile.

La pace è troppo spesso ridotta a silenzio delle armi, invece è un’opera di lungo respiro, come ha suggerito Paul Ricœur: un processo di riconoscimento reciproco, in cui l’altro smette di essere ostacolo e diventa interlocutore. In prospettiva ricoeriana, vi invito a non fermarci a un’idea negativa, “difensiva” della pace come assenza di violenza, ma di intenderla come un’etica della relazione. Questo significa che la pace è un’espressione matura della capacità di convivere nella differenza, accettando che l’altro non sia solo portatore di opinioni diverse, ma un soggetto intero, con la sua storia, vulnerabilità, e diritto a esistere.
Pace e democrazia condividono la radice profonda dell’essere pratiche quotidiane, costruzioni lente e fragili, che vivono solo se alimentate giorno per giorno. Non sono astrazioni vuote, ma una trama fitta di relazioni, che si tesse ogni giorno, nella vita quotidiana, nei gesti minimi e ripetuti, in quella dimensione ordinaria dell’esistenza che troppo spesso diamo per scontata. Proprio come la pace, anche la democrazia viene spesso fraintesa: ridotta a una forma istituzionale, a un diritto di voto, tra l’altro neanche troppo spesso esercitato, ma è il linguaggio politico della convivenza nella pluralità, la forma pubblica dell’etica relazionale. Alfred Schütz ci ricorda che viviamo immersi in un flusso intersoggettivo di significati condivisi, in cui ogni parola che diciamo e ogni gesto che compiamo si fondano su un’intesa implicita con gli altri: un mondo della vita, direbbe Husserl, fatto di esperienze vissute. E la pace e la democrazia abitano proprio lì, nella fiducia reciproca, nella prevedibilità rassicurante dell’incontro quotidiano. Non si impongono dall’alto e non basta dichiararle con enfasi nei momenti solenni, ma si praticano, silenziosamente, nell’abitudine all’altro, nella capacità di riconoscerlo come soggetto di senso.
Se Schütz ci insegna che la comprensione dell’altro inizia dall’interpretazione di fondo del suo agire, nel momento in cui lo consideriamo simile a noi, dotato delle nostre stesse intenzionalità, collocato nello stesso orizzonte del mondo della vita, allora è nel tessuto umile dell’esperienza condivisa che la pace si rende reale e la democrazia diviene quell’ideale regolativo che non descrive la realtà così com'è, ma indica una direzione verso cui tendere, una stella polare. La democrazia, in questo senso, non è solo ciò che c’è, ma anche ciò che dovremmo cercare di realizzare. Non nei proclami, ma nella pratica della vita pubblica (e politica!), nella capacità di sospendere il giudizio sull’altro, nel riconoscimento del suo punto di vista come legittimo, anche quando ci appare distante.
La guerra nasce quando questo patto silenzioso si rompe, quando l’altro viene spogliato della sua intenzionalità e ridotto a cosa, a nemico da gestire o eliminare. La pace, invece, c’è finché ci assumiamo la fatica del riconoscimento e restiamo fedeli a quella scelta quotidiana e consapevole di abitare con gli altri e non contro gli altri, di rinnovarsi in ogni gesto, in ogni parola, di non rispondere alla violenza con altra violenza. Scelta che è frutto di quella cultura umanistica che forma la persona, la apre al mondo e rende la pace una pratica che si costruisce, attraversando il conflitto senza distruggere l’altro o negarlo. Una concezione, questa, di pace e democrazia di dinamicità, un movimento dato dalla tensione costante di coabitare il mondo senza pretenderne uniformità. Sono espressioni di un’etica della relazione che ci racconta che il bene non si definisce da soli, ma insieme, divenendo non un pensiero astratto, ma carne nella vita quotidiana nelle scelte che plasmano il nostro stare con gli altri. E ciò significa fare spazio all’altro e lasciargli cittadinanza dentro di noi, sapendo che non sarà mai totalmente come noi e per questo accoglierlo come sfida alla nostra identità chiusa, come occasione per riscoprire chi siamo nell’incontro, non nella difesa. Ma sono anche costruzioni fragili e mai finite, sono opere corali, pace e democrazia, che richiedono tempo, cura e disponibilità. Mai compiute e sempre in divenire, sempre a rischio, sempre da rinnovare, mai mete raggiunte una volta per tutte, ma pratiche quotidiane. E proprio perché fragili, proprio perché difficili, proprio perché possono spezzarsi, vale la pena di pensarle, custodirle, praticarle.
“Pace e democrazia non sono idee astratte. Sono una pratica, una responsabilità, una cultura da vivere ogni giorno.”





