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Ospedali, non stadi: l’indignazione della Generazione Z marocchina

C’è qualcosa di profondamente poetico, e terribilmente tragico, nel vedere un Paese che sogna i Mondiali di calcio mentre i suoi giovani scendono in piazza per chiedere… un ospedale che funzioni. 

Mounir Neddi, CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons
Mounir Neddi, CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons

Benvenuti in Marocco, anno 2025: la terra dove si costruiscono stadi più velocemente di quanto si trovino medici, e dove la “Generazione Z” ha deciso che il silenzio non è più un’opzione.

 

Tutto è cominciato ad Agadir, tra i muri scrostati dell’ospedale Hassan II, dove otto donne sono morte mentre davano la vita. Ma da quel dolore è nato un urlo: “Ospedali, non stadi!”.

 

In pochi giorni il grido è rimbalzato su TikTok, Instagram, Discord: i nuovi megafoni della rabbia collettiva. E così è nato GenZ212, un movimento senza leader, senza partiti, senza bandiere. Solo ragazzi e ragazze che hanno deciso che basta un telefono e un hashtag per dire al potere: “Non ci ingannerete con i fuochi d’artificio del progresso”.

 

Il governo marocchino, come tutti i governi allergici alla giovinezza, ha reagito nel modo più prevedibile: manganelli, arresti, repressione. Tre morti (secondo le autorità), centinaia di feriti e migliaia di arresti. Perché la democrazia di cui può vantarsi una monarchia, si sa, inizia col divieto di riunirsi.

 

Ma questa volta qualcosa è diverso. La protesta non nasce dai partiti o dai sindacati: nasce da un’intera generazione che non vuole più essere spettatrice di un Paese che investe miliardi in stadi mentre lascia i suoi ospedali cadere a pezzi. È una generazione connessa, globale, ironica. Una generazione che non crede più ai comunicati ufficiali, ma ai video girati col telefono alle due di notte.

 

E non è solo il Marocco. Nel mondo altri giovani protestano per le stesse ragioni: disoccupazione, corruzione, promesse di sviluppo che sanno di carta bagnata. Anche lì la risposta è sempre gas lacrimogeni e proiettili di gomma.

 

È curioso come, indipendentemente dalle latitudini, il potere abbia la stessa reazione davanti ai giovani: prima li ignora, poi li teme, infine li colpisce. Ma il problema è che la Generazione Z non ha più paura. Non di un manganello, almeno. La loro arma è la connessione. La loro forza è la trasparenza. E la loro ironia è micidiale: quando un governo li accusa di essere “disinformati”, loro rispondono con un meme.

 

Certo, qualcuno dirà che sono ingenui, che la rivoluzione su TikTok non cambia i sistemi. Forse si o forse chissà. Ma ciò che sappiamo è che ogni cambiamento nasce da un atto di disobbedienza, anche piccolo. E se oggi un ragazzo di Casablanca, o altrove,  osa urlare che vuole un futuro migliore, allora quel grido vale più di mille discorsi parlamentari.

 

Il Marocco scoprirà presto che non si può reprimere un hashtag. Si può oscurare una piazza, ma non un’idea. E l’idea che “il futuro appartiene ai giovani” non è più uno slogan pubblicitario: è una minaccia politica.

 

Che la Generazione Z marocchina vinca o perda, poco importa: ha già rotto il tabù più grande, quello dell’indifferenza. E se da Agadir il mondo adulto continua a costruire stadi e ministeri mentre crollano scuole e ospedali, allora almeno una certezza resta: la prossima rivoluzione non partirà dai palazzi, ma dai feed. E questa volta, un “mi piace” sarà una dichiarazione di resistenza.

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