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Machado, le nuove categorie del pacifismo

Per molti trumpiani brucia ancora l’onta della mancata assegnazione del Nobel per la pace al Presidente degli Stati Uniti d’America che ha “posto fine a otto guerre”. Poco importa ovviamente sapere che, al di là della persona in questione, la valutazione della commissione si era conclusa ben prima che la tregua a Gaza fosse imposta con la forza a stelle e strisce.

Maria Corina Machado - Carlos Díaz, CC BY 2.0, via Wikimedia Commons
Maria Corina Machado - Carlos Díaz, CC BY 2.0, via Wikimedia Commons

Il premio assegnato a Maria Corina Machado, fiera oppositrice della discussa presidenza Maduro, può considerarsi bene o male un riconoscimento al MAGA. Il Venezuela è attraversato da oltre un decennio da una drammatica crisi economica, sofferenza sociale e una continua erosione dei diritti. Le critiche di autoritarismo rivolte dagli organismi internazionali al presidente sono frequenti fra le violente repressioni delle proteste e le forzature istituzionali. Gli indicatori del benessere sono certamente in rosso in uno dei paesi con i maggiori giacimenti di petrolio al mondo. Lo stato bolivariano, non a caso, è anche uno dei principali bersagli dell’ingerenza statunitense, atavicamente ostile a qualsiasi governo troppo a sinistra che possa nascere nelle sue vicinanze.


Madrina del partito Veinte Venezuela, di orientamento liberale di centro destra, Machado rappresenta quella opposizione interna al paese che la Cia o l’esercito USA “in lotta contro il narcotraffico” non possono esplicitamente capeggiare. Dall’appoggio a Netanyahu (che già da solo renderebbe nulla ogni presunta velleità pacifista), alla vicinanza politica con i sovranisti europei con gli spagnoli di Vox in testa, fino all’accusa di voler rovesciare in maniera violenta l’attuale governo, Machado sembra festeggiata più dalle destre che tanto amano la pace muscolare delle armi che dagli schieramenti a sinistra che guardano alla coesistenza civile fra popoli ed alla non violenza. Insomma, una esponente di quella politica che soffia sul fuoco anziché sottrarre il materiale combustibile per spegnere gli incendi.


È strano pensare che il Nobel sia in mani dubbie se chi lo vince è la principale sostenitrice delle sanzioni statunitensi che hanno contribuito alla rovina del suo stesso paese? Che sia fra le artefici di un golpe che abbia portato la sua nazione sull’orlo della guerra civile nel 2002? Che sia politicamente vicina a movimenti quali il MAGA o partiti come Likud, Vox, Front National o AFD e abbia posizioni fortemente critiche (leggi ostili) contro i musulmani? Che auspichi il ritorno della democrazia in Venezuela per mano, anche armata, di Trump?


Forse no, non è più tanto strano in questa pericolosa epoca di inversione dei poli significanti, dove le destre riscrivono la grammatica della politica, del vivere civile, dei rapporti interpersonali e propongono una sistematica revisione della storia. Quando le politiche socialiste vengono strozzate in regimi autoritari, le piazze protestano per le flotte umanitarie sequestrate in violazione delle leggi internazionali, nel tempo in cui viene definito “accordo di pace” la svendita di un popolo ancora sanguinante per il suo genocidio, anche chi occhieggia alla violenza può ambire al Nobel per la Pace (e al Sakharov), soprattutto se gradito agli USA. Una distopia in cui i termini scivolano dalla usuale semantica per indossare un vestito contemporaneo ma primitivo, giacca, cravatta e clava, affari, colonialismo e massacro al di sopra del diritto internazionale e della vita delle persone inermi.

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