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La “Trump Card” e l’Aporofobia: quando la cittadinanza diventa privilegio

Poco più di un mese fa, il presidente Donald Trump ha lanciato un’iniziativa che ha fatto discutere, riportata da varie testate nazionali e internazionali: la cosiddetta Gold Card, uno speciale permesso di soggiorno che reca impressi il nome e il volto del Presidente stesso. In cambio di questo documento, l’amministrazione americana chiederà ai super-ricchi la cifra “modica” di 5 milioni di dollari. È stato lo stesso presidente a presentare la carta dorata alla stampa, che ricorda curiosamente il biglietto d’oro celato nelle barrette di cioccolato di Willy Wonka. «Sapete cos’è questa carta? È la carta d’oro, la carta di Trump», ha dichiarato ai giornalisti. «Per 5 milioni di dollari potrebbe essere vostra».

 

La tessera, dorata e scintillante, mostra il ritratto ufficiale del presidente, accompagnato dalla sua firma e dalla dicitura “The Trump Card”.

 

Il programma – noto anche come “visto d’oro” – è destinato a milionari che desiderano stabilirsi negli Stati Uniti e beneficiare degli stessi diritti dei residenti permanenti, se non di qualche privilegio in più. Secondo i media, la carta permetterà ai titolari di non pagare tasse sul reddito estero, rafforzando così l’idea di un accesso selettivo e privilegiato al sogno americano.

 

Questa iniziativa di “accoglienza” si presenta in palese contrasto con l’atteggiamento restrittivo che Trump ha spesso adottato nei confronti dell’immigrazione: dalla costruzione del muro al confine con il Messico, fino agli arresti di cittadini regolari in possesso della green card, colpevoli di aver espresso solidarietà alla Palestina.

 

Tuttavia, per quanto possa sembrare stravagante, questa proposta non è del tutto nuova. Ricorda, anzi, una misura introdotta anni prima nel Regno Unito: tra il 2004 e il 2006, l’allora ministro degli Interni britannico Charles Clarke annunciò un sistema di immigrazione a punti, volto ad attrarre solo i più qualificati e brillanti, tenendo lontani gli altri. In altre parole, non si tratta di un rifiuto generalizzato dell’immigrazione, ma piuttosto della selezione escludente dei poveri.

 

A ben vedere, ciò che si intende scoraggiare non è l’arrivo di stranieri in quanto tali, ma l’arrivo dei poveri. Questo fenomeno è stato descritto con estrema lucidità dalla filosofa e sociologa Adela Cortina attraverso il concetto di aporofobia – termine coniato per indicare l’avversione nei confronti dei poveri. In un suo noto studio, Cortina mostra come molti dei comportamenti che siamo soliti classificare sotto l’etichetta di razzismo, xenofobia o ostilità verso i migranti siano in realtà espressione di un’antipatia selettiva, motivata non dalla diversità culturale o etnica, ma dalla condizione economica.

 

È in questa prospettiva che possiamo rileggere i sempre più diffusi programmi di cittadinanza per investimento: strumenti politici pensati per attrarre capitali e competenze, ma che di fatto istituzionalizzano una forma di cittadinanza a pagamento, riservata a chi può permettersela.

 

Il meccanismo è semplice, sebbene le procedure varino da paese a paese: in cambio di una certa somma di denaro – sotto forma di investimento diretto, donazioni filantropiche o acquisto immobiliare – si ottiene il diritto a risiedere, lavorare o addirittura accedere alla cittadinanza.

 

Il sito specializzato www.residencies.io fornisce una panoramica dettagliata di questi programmi. Per esempio, in Austria è possibile acquisire la cittadinanza con una donazione di 500.000 euro ad attività filantropiche, a patto di possedere un patrimonio netto di almeno 2 milioni di euro. In Spagna, un permesso di soggiorno temporaneo richiede un investimento immobiliare di 500.000 euro, oltre a un reddito annuo minimo di 25.560 euro. Dopo cinque anni, la residenza può diventare permanente; dopo dieci anni, si può ottenere la cittadinanza. Anche in Portogallo il capitale minimo è di 500.000 euro, ma non è richiesta alcuna prova di reddito. La cittadinanza può essere acquisita dopo sei anni. Negli Stati Uniti, come in molti paesi dell’Unione Europea, il messaggio è chiaro: non si tratta di costruire muri contro gli stranieri, ma contro i poveri.

 

Queste dinamiche ci costringono a porci domande di fondo su cosa significhi oggi appartenere a una comunità politica. La cittadinanza, da diritto universale e inalienabile, sembra trasformarsi sempre più in merce di scambio, oggetto di transazioni economiche che ne svuotano il significato democratico. La politica, da sempre impegnata a interrogarsi sul concetto di cittadinanza, di giustizia e di appartenenza, non può esimersi dal riflettere su questi mutamenti. In un mondo globalizzato dove le frontiere si aprono per i capitali e si chiudono per i corpi, la distinzione tra chi ha diritto a muoversi e chi no, diventa una questione non più solo giuridica, ma etica.

Nicolas Vigier, CC0, via Wikimedia Commons
Nicolas Vigier, CC0, via Wikimedia Commons

Bibliografia

 

Cortina, A. (2023), Aporafobia. Il disprezzo per i poveri. Timeo Edizioni. Palermo.


Travis, A. (2006), Immigration shake-up will bar most unskilled workers from outside EU, in “The Guradian”, 8 marzo 2006.

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