L’abitudine al male, piccole concessioni, grandi orrori
- Anna Lorenzini

- 23 set
- Tempo di lettura: 4 min
Esiste un pericolo silenzioso che incombe sulle democrazie e, più in generale, sulla vita civile di tutti noi, anzi, ci ha già prevaricato. Non è quello degli atti clamorosi, dei colpi di stato improvvisi o delle violenze eclatanti, ma quello delle piccole concessioni quotidiane, delle abitudini che si radicano piano piano, quasi senza che ce ne accorgiamo. Ogni volta che accettiamo una limitazione apparentemente innocua, ogni volta che minimizziamo una violenza ritenuta marginale, ogni volta che distogliamo lo sguardo davanti a un sopruso, contribuiamo a costruire un percorso che, passo dopo passo, conduce all’orrore.

Come ricordava Tzvetan Todorov, se Hitler avesse dichiarato nel 1933 l’intenzione di sterminare un intero popolo, non avrebbe mai ottenuto il consenso popolare. Perché la coscienza collettiva non si lascia travolgere tutta in una volta, ma può essere educata o, meglio, diseducata, con lentezza, normalizzando ogni giorno una piccola lesione della giustizia e della dignità. È la gradualità che permette al male di attecchire, presentandosi non come un trauma, ma come una sequenza di passi ragionevoli, quasi inevitabili, come un’abitudine silenziosa alla violazione dei valori democratici e di rispetto dell’altro.
Questo principio non vale solo per la guerra o per i regimi totalitari, ma anche per tutte le forme di violenza che incontriamo nella vita quotidiana e che tolleriamo o giustifichiamo. Un furto, un’aggressione, una rapina, un linguaggio che offende: ogni volta che accettiamo queste azioni partecipiamo alla costruzione di una cultura del male. E proprio come avviene nei grandi processi storici, il rischio è che a forza di tollerare piccole violazioni si finisca per legittimare anche quelle più gravi. Lo facciamo ogni volta che non applichiamo la giustizia con coerenza, che rinunciamo a educare le nuove generazioni al rispetto dell’altro, alla consapevolezza che non si può avere tutto né pretenderlo. In assenza di educazione, di controllo e di reali possibilità, e in presenza solo di vizi (perché non è solo la povertà a generare delinquenza), non solo abbandoniamo i giovani al disorientamento, ma li istighiamo di fatto a delinquere. Così accade che le persone povere e oneste, che pure avrebbero bisogno di una solida struttura sociale che le sostenga, vengano lasciate sole, mentre la delinquenza viene di fatto favorita e alimentata proprio dall’impunità che le viene concessa.
Il pericolo più sottile è che il male che si insinui come acqua che scava la roccia. Hannah Arendt lo ha descritto con lucidità nel concetto di “banalità del male”: non sono i demoni a distruggere il mondo, ma le persone comuni che smettono di pensare, che obbediscono, che si adattano. Così il male si fa quotidiano, invisibile, perfino rassicurante. È la routine che uccide la coscienza, l’abitudine che normalizza l’orrore. Michel Foucault ci ha mostrato che il potere contemporaneo non agisce soltanto con la forza, ma plasma le coscienze, educa le abitudini, orienta ciò che percepiamo come normale. In questo modo, possiamo persino arrivare a desiderare ciò che ci limita, a tollerare ciò che ci ferisce, a considerare inevitabile ciò che ci umilia.
Ma l’antidoto al male, come diceva Albert Camus, non è un atto eroico e isolato, è una resistenza lucida e quotidiana, la cura del pensiero, della coscienza, della responsabilità personale. È nel rifiuto di compromessi apparentemente innocui che si misura la vera libertà. Non serve gridare, ma pensare, interrogarsi, opporsi anche quando tutto sembra insignificante. Perché democrazia non cade mai di colpo, cade per indifferenza.
E questo meccanismo è quantomai attuale, dal grande, il conflitto armato cui assistiamo, alla microcriminalità che mina il tessuto sociale, ogni volta che chiudiamo un occhio, prepariamo il terreno perché queste forme di male si moltiplichino e diventino sistema. Ma se l’occhio decidiamo di non chiuderlo, spesso ci troviamo soli, esposti alla violenza stessa. Per questo la responsabilità non può ricadere sul singolo, occorre agire insieme, come comunità, e soprattutto è necessario che la struttura sociale e lo Stato assumano il loro compito fondamentale di difendere e proteggere il cittadino. Ogni concessione incide sul futuro ed è per questo che la vigilanza non è una scelta, ma un dovere morale e collettivo.
La verità è che la democrazia non è un castello impenetrabile e la libertà non è mai garantita una volta per tutte, ma sono un giardino fragile, condiviso, che richiede cura, attenzione, responsabilità e, soprattutto, la coscienza, il pensiero critico e la scelta etica possono essere un faro che illuminano il futuro con continuità. Ogni volta che rifiutiamo l’abitudine al male e opponiamo un gesto di responsabilità, per quanto piccolo, accendiamo quella luce. Custodirla è il nostro compito, se vogliamo che la dignità dell’essere umano resti intatta e che la storia non si ripeta come un incubo. Perché il male cresce dove la coscienza si addormenta, ma si ritrae quando trova la fermezza di chi non si arrende all’indifferenza.
L’orrore non ha bisogno di clamore perché si costruisce con la complicità silenziosa di chi rinuncia al pensiero critico, ma noi possiamo trasformare l’abitudine al bene in un antidoto potente contro l’abitudine al male.





