Il cuore d’acciaio italiano che lentamente muore
- Elio Litti

- 6 giorni fa
- Tempo di lettura: 4 min
Le immagini dei blocchi stradali di Genova e Taranto riportano agli oneri della cronaca una vicenda, quella dell’ex Ilva, che si trascina ormai da decenni senza che appaia all’orizzonte alcuna reale visione industriale e senza che la politica decida di adempiere al suo ruolo, ovvero di governare e programmare i processi anziché gestire l’emergenza.
In questa babele (dis)organizzativa, nonostante le tavolate e le passeggiate ai palazzi romani, si assiste alla consunzione di quello che era l’asse portante della siderurgia italiana. Non fa mistero ormai la sindaca di Genova, di voler affrontare la crisi Ilva, scorporando Genova a Taranto e creando quindi i presupposti per il tracollo definitivo della più grande fabbrica italiana. Tracollo che a questo punto, vista la non economicità di una reale ambientalizzazione, vista la paventata decimazione della forza lavoro, viste le esternalità negative su paesaggio e salute, potrebbe quasi diventare una prospettiva auspicabile più che evitabile, fermo restando la non negoziabilità di interventi di bonifica e ambientalizzazione.
Della storia dell’ex Ilva si sono scritti chilometri di pagine, di articoli, di libri e di sentenze giudiziarie. Michele Riondino, illustre regista e attore tarantino, con il suo impeccabile “Palazzina LAF” ha portato sul grande schermo le dinamiche di mobbing e pressione che hanno subito per anni alcuni lavoratori che hanno messo in discussione le dinamiche sindacali e il rispetto della salute dei lavoratori. Ed è storia acclarata come, dal terremoto giudiziario del 2012, che ha visto il sequestro degli impianti, e da lì una sequela di decreti Salva Ilva (ed ammazza Taranto) per cui, tutti i vari governi susseguitisi abbiano imbastito vari tentativi di recupero del ciclo produttivo. Tentativi irrisolti e fragili legalmente ed economicamente, per cui l’acquisizione della fabbrica da partner internazionali si è tradotta in un disco rotto, una sequela di disastri che davvero poco hanno ottenuto nel bilancio tra diritto alla salute e diritto al lavoro.
Così, non contenti della burrascosa e fallimentare performance del gruppo franco-lussemburghese Alcerol Mittal che aveva come scopo malcelato, più quello di eliminare il competitor italiano, che rilanciarne la produzione, ci si trova, alla fine del 2025, ad assistere ancora alla penosa telenovela sul rilancio del mostro d’acciaio. Telenovela nella quale il governo, che dovrebbe gestire la situazione di crisi, ci ripropone i soliti schemi e narrazioni a una cittadinanza stanca ed avvilita.
Il salvataggio di ciò che resta dell’apparato siderurgico dell’ex-Ilva, sa di già visto: in nemmeno un anno i vari principi azzurri che avrebbero dovuto soccorrere la brutta addormentata provenivano dalla Turchia, dall’Azerbaijan, dall’Ucraina e si son addirittura proposte due società statunitensi, specializzate dei fondi speculativi (ovvero nella sostanziale svendita di pezzi di azienda) che avrebbero proposto l’acquisto dell’azienda italiana con il maggior numero di dipendenti, al prezzo di un euro.
Eppure, il ministro Urso millanta ottimismo: pare talmente tanto interessante questa acquisizione che, come si sono domandati dalle parti del sindacato: “perché mai se non interessa ad alcuna cordata italiana di imprenditori, dovrebbe interessare l’acquisto a qualche imprenditore straniero?”
Già, come mai l’ex Ilva diventa a volte il simbolo dell’industria italiana nel mondo, l’orgoglio produttivo nazionale che Boccioni, Balla e Marinetti spostatevi proprio, e poi, quando si tratta di decarbonizzare, conciliare salute e lavoro (entrambi diritti umani fondamentali, nonché elementi cardine della nostra Costituzione), tutta questa narrazione sulla siderurgia italica vacilla completamente?
L’ex Ilva si staglia ancora come un catorcio mezzo arrugginito alle porte di Taranto, ne deturpa il paesaggio, ne offusca visioni alternative e ne segna ancora, nonostante ormai impieghi meno di un quarto degli operai d’un tempo, la vita politica, economica e sociale di un pezzo di Puglia, un tempo orgoglio industriale italiano, ora un quasi paria anche agli occhi di una regione che invece si proietta verso il futuro.
Difficile pensare che si possa salvaguardare la salute e contemporaneamente mantenere a tempo indefinito un numero monstre di lavoratori, totalmente sovradimensionato nel caso di una reale decarbonizzazione. Difficile talvolta capire sia le logiche sindacali, che spesso coincidono con quelle aziendaliste, e che vedono il mantenimento del numero di dipendenti come la variabile preponderante. Difficile per un governo di destra-destra capire, concepire, come senza la mano dello Stato in senso alto, non si possa tutelare l’ambiente, risarcire una terra che ha dato tantissimo al sistema paese, e che non si possa non pensare a una soluzione definitiva delle problematiche ambientali e sanitarie.
Una città per cui quasi ogni famiglia ha un morto in casa per tumori legati all’inquinamento, esige che la riconversione non significhi semplicemente chiusura delle fonti inquinanti, ma anche rinaturalizzazione e bonifica dei luoghi contaminati, investimento nel capitale umano e culturale, uscita dalla monocultura dell’acciaio e dalla monocommittenza produttiva.
Sono tutte sfide che i governi di tutti i colori non sono stati all’altezza di accogliere, il futuro dell’ex Ilva diventa quindi una sfida che, se accolta, potrebbe consacrare la prima ministra Meloni a reale leader di caratura nazionale. Per ora pare invece che la premier brilli per la sua assenza da uno dei dossier più caldi dell’attualità economica italiana. Pur di non scottarsi anche lei con il dossier siderurgico prevale, almeno per ora, il farsi da parte. Chissà che l’evoluzione dei tavoli interministeriali tra governo e parti sociali non ci regalino colpi di scena o gli ennesimi colpi di teatro di questo melodramma magnogreco.
Intanto, mentre la fabbrica affonda, c’è una parte di Taranto che non resta a guardare ma che disegna un futuro economico alternativo, che sappia far riemergere l’economia locale dalle ceneri di un modello industriale novecentesco. Ma parleremo di una visione di Taranto dopo l’Ilva in un prossimo pezzo. Restate sintonizzati.






