Il cessate il fuoco per Gaza, giudicato impossibile fino a pochi mesi fa, è finalmente realtà. Questo storico risultato è stato raggiunto grazie alla collaborazione tra il presidente uscente Joe Biden e il presidente eletto Donald Trump.
Una sinergia che ha visto i due leader, notoriamente divisi, lavorare verso un obiettivo comune. Ovviamente non sono mancate le rivendicazioni: Trump ha dichiarato che senza la sua elezione questo accordo non sarebbe mai stato possibile, mentre Biden, pungolato sulla questione del merito, ha tagliato corto: “È uno scherzo?”.
L’intesa mette (temporaneamente) fine a una guerra di 15 mesi, una delle più sanguinose nella storia dell’occupazione israeliana in Palestina. Tuttavia, ciò che rende straordinario questo accordo non è solo la rara collaborazione tra due presidenti di fazioni opposte in un periodo di transizione. Né si tratta dei termini dell’accordo, che rispecchiano proposte già discusse nei mesi passati. La vera novità è l’inatteso cambiamento di rotta del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu.
Bibi, che fino a poco tempo fa aveva definito alcune condizioni “questioni di vita o di morte”, ha accettato ciò che sembrava impensabile, incluso il fatto che Hamas continuasse ad avere il controllo sulla Striscia di Gaza ed ha aperto la strada all’accordo sugli ostaggi, richiesto dalla sinistra israeliana ma osteggiato dalla destra.
Un paradosso reso possibile da quello che Amos Harel, analista militare di Haaretz, definisce “l’effetto Trump”.

Secondo Harel, l’accordo si è concluso grazie al ruolo cruciale di Steven Witkoff, miliardario e stretto alleato di Trump, destinato a diventare inviato speciale per il Medio Oriente. Witkoff, in un incontro diretto con Netanyahu, ha detto senza mezzi termini che Trump si aspettava che accettasse la proposta.
Lo scenario geopolitico ha contribuito a facilitare il processo: Yahya Sinwar, leader di Hamas e ideatore dell’attacco del 7 ottobre, è stato ucciso; Hezbollah è stato indebolito; il cessate il fuoco con il Libano ha chiuso il secondo fronte di guerra lasciando Hamas isolata; e la caduta del presidente siriano Bashar al-Assad ha segnato un duro colpo per l’Iran e i suoi alleati.

Nonostante ciò, il prezzo da pagare per Israele sarà elevato. Per ogni ostaggio israeliano liberato da Hamas, Israele rilascerà un numero significativamente maggiore di prigionieri palestinesi, alcuni dei quali accusati di crimini contro cittadini israeliani. In una trattativa del genere fu liberato Sinwar. Questo equilibrio precario alimenta i dubbi della destra israeliana, tanto che alcune forze della coalizione di governo di Netanyahu potrebbero defezionare.
Il premier israeliano però appare più incline a cedere alle pressioni di Washington che a quelle provenienti dai suoi alleati politici interni. Ora però il vero interrogativo, per la destra israeliana, è quale altra concessione Trump potrebbe chiedere. Il presidente eletto punta chiaramente a un accordo di normalizzazione tra Israele e Arabia Saudita, considerato il culmine degli Accordi di Abramo che ha orchestrato nel 2020. Tuttavia, i sauditi difficilmente acconsentiranno senza ottenere in cambio una road map per la creazione di uno Stato palestinese.
Allo stesso modo Trump potrebbe preferire sfruttare l’attuale debolezza dell’Iran per negoziare un nuovo accordo sul nucleare, cercando di consolidare un successo diplomatico, mentre ciò che vorrebbe di più Netanyahu è ottenere il supporto americano per un possibile attacco ai siti nucleari iraniani, un’azione che potrebbe essere pianificata già nelle prossime settimane o mesi.