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Decolonizzare la liberazione: autodeterminazione queer e solidarietà globale

Nel dibattito globale sui diritti LGBTQIA+, troppo spesso si assume che l’Occidente detenga il modello ideale di progresso. L’attivismo queer e trans non occidentale viene raccontato (se raccontato) come un riflesso, una copia o un’imitazione delle lotte europee o nordamericane. In realtà, in molti contesti del Sud globale, le comunità LGBTQIA+ hanno costruito percorsi autonomi di resistenza, identità e sopravvivenza. L’eguaglianza, per essere autentica, non può nascere dall’omologazione, ma dal riconoscimento della pluralità delle esperienze e dei contesti. 

https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Queers_for_Palestine_at_Helsinki_Pride_Parade_2024.jpg
JIP, CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons

L’imposizione di modelli occidentali nei Paesi non occidentali – in termini di visibilità, terminologie, diritti e strategie di attivismo – rischia di trasformarsi in una nuova forma di colonialismo culturale. Laddove l’Occidente celebra il coming out pubblico, l’individuo visibile e la cittadinanza liberale, molte persone queer nel mondo trovano forza in reti informali, identità fluide e relazioni comunitarie che non coincidono con quelle occidentali. Il diritto all’autodeterminazione significa anche questo: poter scegliere come vivere e lottare, senza dover rinunciare alla propria storia, spiritualità o cultura per essere “riconosciuti”.

 

Questo principio è al cuore di molte alleanze queer globali, come quella tra la comunità LGBTQIA+ e la causa palestinese.

 

Molti attivisti LGBTQIA+ si schierano con la Palestina per solidarietà verso chi subisce oppressione e violenza sistemica. Vedono nella lotta palestinese una battaglia simile alla loro per i diritti e la dignità. Inoltre, criticano il pinkwashing, ovvero l’uso dei diritti LGBTQIA+ da parte di Israele per coprire le violazioni dei diritti umani contro i palestinesi. La solidarietà queer è spesso parte di una visione più ampia contro tutte le forme di ingiustizia.

 

Questa visione riconosce che la liberazione queer non può essere separata dalla giustizia sociale, dalla lotta anticoloniale, dall’antirazzismo. Non esiste una liberazione autentica che si basi sull’esclusione degli altri: la violenza sistemica contro i palestinesi non può essere giustificata o ignorata in nome di un presunto progresso per le persone LGBTQIA+ israeliane. Al contrario, molte voci queer e trans – anche ebrei, arabi, africani, asiatici, latinoamericani – chiedono coerenza: non si può lottare per la dignità di alcuni ignorando l’umiliazione di altri.

 

Affermare l’autodeterminazione queer nei contesti non occidentali non è solo un gesto culturale, ma un atto politico. Significa rifiutare il ricatto della rispettabilità, la gerarchia dei diritti, la retorica salvifica dell’“aiuto” occidentale. Significa affermare che le soggettività LGBTQIA+ del mondo non sono oggetti di intervento, ma soggetti di lotta. Che hanno il diritto non solo di vivere, ma di scegliere come vivere.

 

Per questo, sempre più persone LGBTQIA+ nel mondo si uniscono a movimenti che vanno oltre il genere e la sessualità: per la terra, per la libertà, per la memoria. Perché sanno che nessuna identità può fiorire nell’ingiustizia.

 

La liberazione queer, per essere reale, deve essere anche decoloniale. E profondamente solidale.

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