I principi fondanti della nostra Costituzione sono stati elaborati dal confronto tra le nostre 21 costituenti in una assemblea a stragrande maggioranza maschile. I partiti delegarono solo maschi nella commissione che si occupò della parte II, Ordinamento della Repubblica. Allora, come oggi, tutto il sistema politico era in mano agli uomini nonostante le partigiane fossero state molto numerose. Uomini che si erano rapidamente ripresi i posti di lavoro come i luoghi decisionali appena finita la guerra. L’armistizio siglato e la pacificazione togliattiana lasciarono purtroppo spazio a molti fascisti di reinserirsi nei gangli dello Stato e ricostruire una destra terrorista che, con la complicità dei servizi segreti mise in atto stragi, da Portella della Ginestra in poi, tuttora impunite.
Le politiche che resistevano con una riconosciuta autorevolezza erano le poche costituenti elette nelle istituzioni quando le donne, nelle prime votazioni del dopoguerra si sono guadagnate il diritto di voto anche nel nostro paese, dopo aver partecipato alla lotta di liberazione dal nazifascismo.
Nilde Iotti è stata la mia presidente per i cinque anni della mia prima legislatura e, nel breve tempo in cui sono stata presidente di un direttivo di sole donne nel gruppo dei Verdi alla Camera dei deputati. Il lunedì, alla riunione dei capigruppo, lei ed io eravamo le uniche donne presenti in un tavolo di soli maschi. Ho avuto modo di conoscerla meglio e capire anche la ragioni della sua severità.[1]
Ho potuto conoscere alcune delle altre quando, neoeletta nei Verdi, sono stata invitata ad intervenire nel convegno che era stato organizzato a quarant’anni dal varo della nostra Costituzione e discutere con loro di come fosse stato lasciato a soli uomini definire il sistema dei poteri che reggeva la Repubblica. Che i partiti nominassero nella sottocommissione che se ne occupava solo maschi non aveva provocato reazioni tra le elette. A noi femministe degli anni Settanta era sembrato che non avessero sufficiente coscienza della loro forza e avessero accettato di conseguenza le decisioni dei partiti che si stavano consolidando.
Nadia Spano rivendicò il grande ruolo politico delle 21 costituenti, nella loro diversa collocazione capaci di trovare mediazioni alte, nel definire i valori costituzionali che si trovano nella prima parte, quella che nessuno osa modificare. Quello è il tempo in cui le donne hanno potuto votare per la prima volta nel nostro paese. Ed è fondamentale che il voto femminile sia stato accompagnato da proposte di quale tessuto sociale bisognava ricostruire.
Riporto qui una parte di un mio vecchio articolo[2] che racconta il mio incontro con le costituenti:
«Le donne entrarono per la prima volta sulla scena politica come soggetti istituzionali, portandosi dietro una debolezza storica che pensavano di avere superato e si ritrovarono nella Consulta, nella Costituente e in Parlamento a misurarsi con i soliti pregiudizi e atteggiamenti maschilisti dei loro colleghi e dei loro dirigenti di partito.
Nella Consulta nazionale istituita il 5 aprile 1945 vennero designate dai partiti dodici donne e una, Adele Bei, dalla Cgil, ma nessuna fece parte dell’ufficio di presidenza: presidente, vicepresidenti, segretari e questori erano tutti uomini. Angela Cingolani, designata dalla DC, fu la prima donna a prendere la parola nella storia italiana in un’aula parlamentare con un discorso politico generale tutto teso alla necessità della ricostruzione post-bellica e della definizione del nuovo stato democratico post-fascista, in cui non c’era spazio per rivendicazioni femministe, ma, invitò i colleghi uomini a smettere galanterie e a valutare le consultrici “come l’espressione di quella metà del popolo italiano che ha pur qualcosa da dire, che ha combattuto, sofferto, resistito e vinto con armi talvolta diverse e talvolta simili alle vostre e che oggi lotta con voi per la democrazia”. Nel marzo 1946 la Consulta corresse il primo Decreto luogotenenziale del 30 gennaio 1945 che riconosceva il diritto attivo al voto ma non quello passivo, cioè di essere elette. Nadia Spano […] ricevette da Bonomi la promessa che la questione sarebbe stata posta al primo consiglio dei ministri poiché De Gasperi e Togliatti erano d’accordo: il 30 gennaio il voto passò.
Non si accorsero però che non c’era il voto passivo e l’anno dopo, in fretta e furia, dovettero approvare un altro decreto per permettere alle donne non solo di votare ma anche di essere elette. Si arrivò così con il pieno diritto di voto riconosciuto alle donne al referendum del 2 giugno e contemporaneamente all’elezione dell’Assemblea Costituente. Le candidate e tutte le donne che parteciparono ad una appassionata campagna elettorale si preoccuparono innanzitutto di portare le donne italiane a votare ‘bene’, battere il voto monarchico e rafforzare il proprio partito. Non si preoccuparono molto di fare eleggere le poche donne presentate nelle liste. Nella Costituente entrarono solo 21 donne su 226 candidate: circa il 3,5% dei 556 deputati.
Nadia Gallico Spano racconta “A noi, costituenti, toccava il compito di stabilire principi, di dettare norme e articoli: alle spalle non avevamo nulla, dovevamo prevedere e costruire il futuro…In altri paesi esistevano delle costituzioni che la guerra aveva sospeso e interrotto; si trattava di ripristinarle, aggiornandole e migliorandole. In Italia era diverso. Ed è con speranza ed emozione che noi varcammo la soglia di Montecitorio, ma anche con un forte senso di responsabilità nei confronti delle donne. Avevano votato per la prima volta e per la prima volta delle donne le rappresentavano […] eravamo coscienti che, elette in gran parte dalle donne, dovevamo rimanere fedeli al mandato ricevuto, rappresentare tutte le donne, e batterci per i loro diritti, introducendo nella Costituzione quei principi ormai maturi, specialmente nelle donne della Resistenza, e altri ancora da affermare, giusti, ma non per questo accettati come tali da una parte dell’Assemblea.”
La Spano prosegue spiegando che in particolare le destre sono contrarie alle donne mentre la sinistra è favorevole con qualche reticenza. Le donne elette rivendicano diritto al lavoro e parità salariale e pongono i principi generali della parità e dell’uguaglianza che saranno espressi chiaramente soprattutto nell’articolo 3, con la formulazione sull’uguaglianza formale nella prima parte e di quella sostanziale nella seconda. Federici, Iotti, Merlin e Noce fecero parte della Commissione dei 75, nella prima e nella terza sottocommissione dove si occuparono della famiglia e della condizione della donna. Quando incontrai Nadia Spano quarant’anni dopo […] le chiesi perché avessero accettato di essere escluse dal luogo dove si decideva la carta del potere del nuovo Stato. Piccata sul vivo Nadia mi disse: “eravamo solo maestrine e con noi c’erano i più insigni costituzionalisti, come Calamandrei ad esempio, non ci sentivamo in grado di competere su quel piano. Ci interessava di più occuparci dei valori della nuova Repubblica e lo facemmo con molta autorevolezza tutte insieme, al di là delle appartenenze, mentre gli uomini che ci ascoltavano con rispetto” Ricordo ancora l’emozione di quel confronto e la sua fierezza nel rispondermi […] Quando avevo partecipato al seminario organizzato da lei a Montecitorio sul quarantennale della Costituzione, io ero assolutamente ignorante e le parlamentari che là avevo ascoltato mi sembravano far parte di una storia politica perdente che noi, femministe degli anni settanta, ci eravamo illuse di cambiare radicalmente dal di fuori delle istituzioni. Allora la mia urgenza era di farmi capire da loro, senza distinguere più di tanto chi era stata costituente e chi no, di riportare nelle istituzioni le istanze e la passione del neofemminismo. Quando mi confrontai con la Spano avevo già alle spalle la mia prima legislatura, con le luci e le ombre, gli entusiasmi e le sofferenze che lo scontro con la politica maschile nelle istituzioni mi aveva causato. Avevo anche imparato qualcosa di più sulla storia della nostra Repubblica che prima non mi aveva minimamente coinvolta né nella mia giovinezza quando la mia passione era l’arte, né all’Università dove i principi filosofici e le grandi domande sul significato della vita, del mondo e della storia mi avevano assorbito, né negli anni settanta dove avevo vissuto l’esperienza di essere madre insieme all’attivismo femminista.»
Oggi la riforma col premierato, voluta dalla prima premier donna Meloni, smonterebbe i principi della nostra costituzione, giudicata anche da altri paesi una delle più belle, proprio grazie alla prima parte con la visione femminile che la contraddistingue.
L’intervento che la senatrice a vita Liliana Segre ha fatto in Senato al riguardo è di una lucidità che non ha bisogno di ulteriori aggiunte per illustrare i rischi di questa proposta di riforma. Ne ricordo qui l’incipit:
«Continuo a ritenere che riformare la Costituzione non sia una vera necessità del nostro Paese. E le drastiche bocciature che gli elettori espressero nei referendum costituzionali del 2006 e del 2016 lasciano supporre che il mio convincimento non sia poi così singolare. Continuo anche a ritenere che occorrerebbe impegnarsi per attuare la Costituzione esistente. E innanzitutto per rispettarla. Confesso, ad esempio, che mi stupisce che gli eletti dal popolo – di ogni colore – non reagiscano al sistematico e inveterato abuso della potestà legislativa da parte dei Governi, in casi che non hanno nulla di straordinariamente necessario e urgente. Ed a maggior ragione mi colpisce il fatto che oggi, di fronte alla palese mortificazione del potere legislativo, si proponga invece di riformare la Carta per rafforzare il già debordante potere esecutivo. […] Il tentativo di forzare un sistema di democrazia parlamentare introducendo l’elezione diretta del capo del governo, che è tipica dei sistemi presidenziali, comporta, a mio avviso, due rischi opposti. Il primo è quello di produrre una stabilità fittizia, nella quale un presidente del consiglio cementato dall’elezione diretta deve convivere con un parlamento riottoso, in un clima di conflittualità istituzionale senza uscita. Il secondo è il rischio di produrre un’abnorme lesione della rappresentatività del parlamento, ove si pretenda di creare a qualunque costo una maggioranza al servizio del Presidente eletto, attraverso artifici maggioritari tali da stravolgere al di là di ogni ragionevolezza le libere scelte del corpo elettorale.”»
[1] Cima L., Il complesso di Penelope, Il Poligrafo, Padova 212, p. 210
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