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Coltellate e silenzi: la mattanza che lo Stato ignora

Luciana Ronchi aveva sessantadue anni. È stata inseguita per strada dal suo ex, colpita con quattordici coltellate. Quattordici. Non una, non due, non “una tragedia della gelosia”: quattordici coltellate. In pieno giorno, a Milano, davanti a testimoni. È stata uccisa perché una donna che decide di andarsene, ancora oggi, deve chiedere il permesso.

TitiNicola, CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons
TitiNicola, CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons

 

Benvenuti nell’Italia del 2025, dove ogni tre giorni una donna viene assassinata da un uomo che “l’amava troppo”. Lo chiamano ancora “delitto passionale”, come se fosse un genere letterario. Ma non è passione, è possesso. Non è raptus, è sistema. Una mattanza silenziosa, rituale, compiuta da un patriarcato criminale che cresce e prospera sotto la complicità di istituzioni distratte e di una cultura che ancora insegna alle bambine a essere “brave e gentili” e ai maschi che “i veri uomini non piangono”.

 

Luciana non è l’unica, è solo l’ultima. Prima di lei, centinaia. Dopo di lei, altre centinaia. Ogni volta la stessa liturgia: il servizio al telegiornale, le candele, i fiori, il minuto di silenzio. Poi tutto torna come prima. E nel frattempo, lo Stato fa finta di chiedersi “perché”. Forse perché da decenni si evita di parlare di educazione all’affettività e alla sessualità nelle scuole? Come se spiegare ai bambini cosa significa rispetto reciproco fosse un atto osceno.

 

Già, perché in Italia educare al rispetto è diventato pericoloso. Meglio lasciare che crescano con TikTok e pornografia violenta, piuttosto che con una lezione su consenso, emozioni e parità. Meglio vietare ai e alle docenti di parlare di sentimenti che rischiare di “corrompere i giovani”. E così, mentre Save the Children supplica il Parlamento di introdurre una materia che esiste ovunque in Europa, noi preferiamo discutere se dire “amore” in classe sia ideologia gender.

 

Nel frattempo, la mattanza continua. Le donne vengono uccise dai loro mariti, compagni, ex, fidanzati, spasimanti respinti. Gli uomini che le uccidono spesso vengono descritti come “bravi padri”, “persone tranquille”, “accecati dalla gelosia”. Mai come carnefici, mai come prodotto di una cultura che li ha nutriti con l’idea che “lei è di mia proprietà”.

 

E siccome la politica continua a latitare, si insinua la tentazione (rumorosa, comprensibile e pericolosa) che qualcuna finisca per pensare di doversi difendere “come può”: quando lo Stato non protegge, la disperazione spinge alla logica del fai-da-te. Questo pensiero circola già tra le donne più spaventate e arrabbiate: è un grido che dice “se non mi proteggete, devo provvedere io, armandomi”.

 

Ma non serve più fingere stupore. Ogni femminicidio è una pagina del manuale del patriarcato italiano: la donna non può dire no, se lo dice, deve pagare e lo Stato, invece di educare, osserva. E allora sì, è una mattanza di Stato. Perché ogni volta che un governo ignora la prevenzione, ogni volta che un ministro tace, ogni volta che una scuola viene imbavagliata, c’è una responsabilità politica e collettiva.

 

Luciana è morta due volte: la prima sotto le coltellate dell’ex, la seconda sotto il silenzio di chi avrebbe potuto cambiare le cose e non lo ha fatto. E finché l’Italia continuerà a temere l’educazione più di un coltello, i nostri figli impareranno l’amore solo dai necrologi e noi, come comunità, resteremo a contare il numero di coltellate.

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