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Vuoto di potere

Il terremoto geopolitico provocato dall’invasione russa dell’Ucraina nel 2022 ha infranto le regole del gioco: le dinamiche di potere tra Stati devono mantenersi su un piano di aggressività tale da non sfociare mai in un confronto diretto, perché uno scontro aperto rischierebbe una distruzione così traumatica da rendere impensabile una ricostruzione dalle ceneri.

 

Le armi di distruzione di massa sono state create proprio per placare maldestramente il desiderio di aggressione verso altri popoli, permettendo a parti del mondo di vivere in una condizione di relativa pace. Il problema, però, è che ciò che si è ottenuto non è vera quiete, ma una repressione della violenza insita in ogni essere umano.

 

Il diritto internazionale non è riuscito a sublimare questa violenza in regole accettabili per chi aderiva ai trattati; al contrario, è spesso diventato uno strumento con cui chi possedeva maggiore capacità di coercizione giustificava l’uso della forza. È successo con l’invasione americana dell’Iraq, il bombardamento NATO su Belgrado, l’occupazione russa della Crimea, l’ambiguità giuridica di Taiwan come forma di violenza psicologica e militare della Cina verso una provincia che considera propria.

 

Nella storia recente le regole sono spesso servite a legittimare l’imposizione violenta del proprio status quo. Gli eventi che hanno portato alla nascita degli Stati diventano a loro volta un alibi per raccontare alla popolazione che lo stress bellico e le morti sono “a fin di bene”, che dopo la vittoria il mondo - o una sua porzione - sarà migliore; in realtà si tratta solo di rendere lo sconfitto più simile al vincitore, quindi più prevedibile e controllabile.

 

Le dinamiche internazionali attuali sono un eterno ritorno dei drammi del passato perché i sentimenti restano identici: rivalsa, gloria, illusione dell’immortalità, desiderio di evadere dalla morte. Invece di scrivere una storia di cooperazione che i posteri possano rileggere con ammirazione, si preferisce la narrazione della conflittualità, perché affascina l’idea che i discendenti saranno orgogliosi della sopraffazione dei propri antenati. Si lascia così nella storia l’eco di aver sconfitto la morte annientando il nemico, quando quel nemico altro non è che la proiezione delle paure più intime di uno Stato o di un’alleanza.

 

L’idea di specialità, però, entra in contraddizione non appena ci si accorge che quasi tutti gli Stati sono prigionieri degli stessi meccanismi: se tutti fanno guerra, nessuno è davvero speciale; qui emerge il problema cruciale: se tutti si sentono legittimati a compiere le stesse azioni, chi può considerarsi autenticamente diverso rifiutandosi di conformarsi? E se uno Stato sceglie di non conformarsi, come può acquisire autorevolezza in un mondo in cui tutti lottano continuamente per la propria esistenza?

 

L’autorevolezza non può più risiedere in un organo internazionale privo di una struttura in cui gli Stati riescano a identificarsi. Può risiedere solo in uno Stato che abbia già superato le proprie conflittualità interne, che non abbia più bisogno di sfogarle all’esterno e che usi la forza non per dominare o imporre regole “universali”, ma unicamente come deterrenza. Uno Stato così lancia un segnale pericoloso all’avversario: «Le conflittualità che tu proietti fuori le abbiamo già affrontate dentro di noi». L’avversario si sente improvvisamente denudato, visto nelle sue fragilità, e la sua violenza appare per quello che è: non superiorità, ma disperazione.

 

In questo momento di terremoto geopolitico non ha senso cercare nell’ONU la soluzione, perché gli Stati non possono identificarsi in un organismo sovranazionale. Serve uno Stato che abbia risolto i propri conflitti interni, che non senta più il bisogno di scaricarli fuori, e che sia capace di entrare in empatia tanto con l’alleato quanto con il nemico, riconoscendo in entrambi semplici modi diversi di stare al mondo, due specchi della stessa anima.

 

Il vero leader mondiale non è chi usa potere economico, finanziario, tecnologico e militare per sottomettere, ma per emancipare; non per dare dignità alle classi dirigenti, ma ai popoli. E risulta quasi un desiderio divino più che una possibilità applicabile nel mondo reale.

 

L’attuale vuoto di potere che rende le dinamiche internazionali sempre più conflittuali deriva dalla ricerca di un potere narcisistico e illusorio, in cui si cerca lo scontro invece dell’incontro, perché gli Stati hanno bisogno di raccontarsi eterni, mentre, in realtà, sono solo una pagina, spesso cruenta, della sceneggiatura che gli esseri umani scrivono su questo pianeta.

L'11 novembre 2025, soldati della Banda Cerimoniale dell'Esercito degli Stati Uniti, insieme a membri del servizio della Joint Task Force National Capital Region / U.S. Army Military District of Washington, hanno partecipato a una Cerimonia di Posizionamento della Corona con Pieno Onore delle Forze Armate presso la Tomba del Milite Ignoto. La corona è stata deposta dal Presidente Donald J. Trump; la cerimonia, in onore del Giorno dei Veterani, è stata ospitata dal Generale di Brigata Annette Gant della JTF-NCR/USAMDW. (Foto dell'Esercito degli Stati Uniti scattata dal Sergente di 1ª classe Rachel Minto, rilasciata) - usarmyband, CC BY 4.0, via Wikimedia Commons
L'11 novembre 2025, soldati della Banda Cerimoniale dell'Esercito degli Stati Uniti, insieme a membri del servizio della Joint Task Force National Capital Region / U.S. Army Military District of Washington, hanno partecipato a una Cerimonia di Posizionamento della Corona con Pieno Onore delle Forze Armate presso la Tomba del Milite Ignoto. La corona è stata deposta dal Presidente Donald J. Trump; la cerimonia, in onore del Giorno dei Veterani, è stata ospitata dal Generale di Brigata Annette Gant della JTF-NCR/USAMDW. (Foto dell'Esercito degli Stati Uniti scattata dal Sergente di 1ª classe Rachel Minto, rilasciata) - usarmyband, CC BY 4.0, via Wikimedia Commons


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