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Un attentato contro la verità

L’esplosione che ha distrutto l’auto di Sigfrido Ranucci davanti alla sua casa a Pomezia il 16 ottobre non è solo un atto criminale, ma un segnale. Un tentativo di spegnere una voce che da anni scava dove il potere preferirebbe il silenzio. Ed è il risultato più estremo di un clima fatto di ostilità politica e mediatica verso Report e verso il giornalismo d’inchiesta.


ArezzoTV, CC BY 3.0, via Wikimedia Commons
ArezzoTV, CC BY 3.0, via Wikimedia Commons

Ranucci è sotto scorta da oltre dieci anni, bersaglio di minacce mafiose, campagne di diffamazione e querele pretestuose. Ma questa volta la bomba non è esplosa contro un programma televisivo: è esplosa nel cortile di casa mettendo in pericolo lui e la sua famiglia. È un salto di livello, non c’è nulla di simbolico in un chilo di esplosivo. C’è solo la volontà di intimidire e di punire chi insiste a raccontare ciò che molti preferirebbero restasse nascosto.

 

L’attentato nasce dopo anni in cui Ranucci è stato pubblicamente delegittimato da esponenti politici, accusato di “diffamare” il Paese, di fare “processi mediatici”, di “usare la tv pubblica per fini politici”. Dichiarazioni rilanciate nei talk show e sui social, mentre dentro la Rai cresceva un clima di isolamento. L’Usigrai lo ha detto chiaramente: Report è stato progressivamente marginalizzato, ridotto negli spazi e lasciato senza una difesa pubblica di fronte agli attacchi. Quando un giornalista viene esposto come un nemico, non si può fingere sorpresa se qualcuno decide di trattarlo come tale.

 

Le querele, le campagne d’odio, le insinuazioni non sono solo strumenti di pressione. Sono atti che preparano il terreno. Quando la seconda carica dello Stato definisce i giornalisti “diffamatori seriali”, quando ministri querelano un’inchiesta invece di rispondere nel merito, quando i vertici di un’azienda pubblica restano in silenzio davanti alla delegittimazione del proprio personale, la democrazia si incrina. Perché la libertà di stampa non muore solo con la censura: muore anche con l’indifferenza.

 

L’attentato di Pomezia è quindi il culmine di una catena di responsabilità. C’è chi ha materialmente collocato l’esplosivo, e dovrà essere trovato. Ma c’è anche chi, con parole, omissioni e convenienze, ha reso più facile arrivare fin lì. La violenza non nasce dal nulla: cresce dove l’odio viene normalizzato e dove il potere si sente autorizzato a ridicolizzare chi lo controlla e lo racconta.

 

Le reazioni istituzionali, da Mattarella a Meloni, sono state immediate e doverose. Ma non bastano le condanne rituali se, il giorno dopo, torna il silenzio. La solidarietà è un gesto politico solo se si traduce in un impegno concreto: difendere Report significa simbolicamente e non solo, difendere il diritto dei cittadini a sapere, non l’immagine di un singolo giornalista. Significa garantire che la Rai resti un luogo di inchieste, non di conformismo. E significa smettere di trattare chi fa domande come un problema da gestire.

 

Ranucci non è un eroe solitario. È un professionista che fa il suo mestiere: cercare la verità e farla conoscere ai più. Se oggi ha bisogno di una scorta potenziata, è perché l’Italia non ha saputo proteggerlo prima, quando gli insulti e le minacce verbali diventavano la normalità. La bomba del 16 ottobre è solo l’ultimo atto di quella catena, non il primo.

 

C’è una responsabilità collettiva da riconoscere. Chi ha delegittimato Ranucci e il suo programma in questi anni deve interrogarsi sul proprio ruolo in questa deriva. Non si può invocare la libertà di stampa solo quando conviene. Non si può lodare Ranucci il giorno dopo un attentato, e accusarlo di faziosità quando il suo lavoro tocca nervi scoperti del potere.

 

Il giornalismo d’inchiesta è scomodo per definizione. Ma in un Paese che si dice democratico, essere scomodi non dovrebbe significare essere in pericolo di vita. La bomba di Pomezia non colpisce solo un uomo: colpisce l’idea stessa che i cittadini abbiano diritto a un’informazione libera, coraggiosa, documentata. Difendere Sigfrido Ranucci oggi significa difendere quel diritto, mentre le condanne, le frasi di circostanza, le promesse di “piena fiducia nella magistratura” sono rumore di fondo.

 

La democrazia si misura da come tratta chi la mette in discussione, e ad oggi in Italia la Democrazia appare più fragile che mai.

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