Giusta è l'indignazione per la morte di un dissidente, soprattutto se rinchiuso nel carcere di una qualunque nazione del pianeta. La lezione della modernità insegna che nessun uomo deve patire alcunché per l'opposizione al potere non soltanto politico. Per le sue idee. Se così non avviene è perché c'è un serio ed evidente problema da cauterizzare quanto prima.
Il caso di Aleksej Navalny – quasi ce ne fosse bisogno – conferma una delle tante malattie del sistema russo. Una nazione a vocazione imperiale che non è mai uscita dalle pieghe dell’autocrazia. Non lo ha fatto durante il comunismo sovietico, regime nato in alternativa allo strapotere degli zar e ai loro arbitri. Non lo ha fatto con Boris Eltsin, che aveva inaugurato il nuovo corso democratico con il favore però di oligarchi e corrotti. E non lo farà ora, con Vladimir Putin che ha formalizzato (in tandem con l’analogo cinese Xi Jinping) la distanza siderale dai sistemi occidentali, teorizzando i paradigmi delle democrazie illiberali.
Non è durante una guerra, va da sé, che si possa cambiare registro. Suvvia! Non è mai successo e mai accadrà. Durante le campagne in armi avviene semmai che anche le più elementari libertà vengano conculcate. Il conflitto in Ucraina non riguarda soltanto il destino di due popoli un tempo fratelli: è qualcosa di più vasto. In esso, Papa Francesco vede la saldatura di quella Terza guerra mondiale a pezzi che da decenni devasta il globo. E se la Russia è da una parte della barricata, i paesi europei e atlantici stanno dall'altra parte. Lo scontro è muscolare. E la morte, piena di opacità, di Navalny rientra in questo contesto e marca ulteriormente le distanze e irrobustisce una cortina che è tornata ad essere di ferro.
L'Occidente l'ha innalzato sugli altari alla stregua di un martire. Lo ha fatto immediatamente. Quasi fosse il simbolo di una divergenza ontologica (probabilmente lo è, anche al netto di alcune sbavature circa il suo pedigree ideologico) rispetto al sistema amministrato con pugno fermo dal Cremlino.
I governi euro-atlantici si sono mossi in maniera compatta. Una sincronia che però dovrebbe far pensare. Perché c’è cordoglio e cordoglio. Ed esiste anche quello suscitato dall’alto e indotto d’autorità. Un sentimento che non serve e potrebbe risultare addirittura sgradevole perché non troppo distante da quelle tensioni anti-libertarie che da questa parte dell'emisfero globale si pretende di contrastare. E su questo bisognerebbe riflettere, schivando le tante ipocrisie del momento. Perché anche le democrazie stanno male, lo ha rilevato – con il suo ultimo libro per i tipi del Mulino – anche Carlo Galli nel tentativo di salvare il salvabile.
Un’infezione che viene da lontano e che non è determinata da populismi, sovranismi o spinte autocratiche (le democrature) provenienti dall’esterno. Le cause stanno all’interno e sono molteplici. Una di queste fa capo a quel ritorno a una gestione opaca del potere che rischia di mandare in soffitta quell’anelito alla trasparenza che è proprio delle liberaldemocrazie. Si torna a decidere in forza a meccanismi che non prevedono il controllo né dei popoli né dei loro rappresentanti. Dall’economia ai rischi sanitari, passando dalle questioni militari.
Intanto, in Occidente si rischia che un giornalista – Julian Assange – possa trascorrere il resto della propria vita in carcere. Come Navalny. E la domanda, dopo duemila anni, resta sempre la stessa: a chi tocca scagliare la prima pietra?
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