Non siete Stato voi
- Maddalena Pareti

- 23 lug
- Tempo di lettura: 2 min
Laura Santi, giornalista di 50 anni, è morta dopo essersi somministrata un farmaco letale, ponendo fine a una lunga battaglia contro la sclerosi multipla, che l’aveva resa tetraplegica per 25 anni. Accanto a lei, fino all’ultimo, il marito Stefano Massoli, che l’ha sostenuta nella sua lotta per ottenere il diritto al suicidio assistito.
Laura aveva ricevuto il via libera dalla ASL di Perugia lo scorso mese, dopo due anni e mezzo dalla sua richiesta formale, presentata nel novembre 2022, per accedere al suicidio medicalmente assistito. Tale procedura è prevista per pazienti affetti da patologie irreversibili, con sofferenze insopportabili, pienamente capaci di prendere decisioni e dipendenti da trattamenti di sostegno vitale, condizioni che Laura soddisfaceva. Tuttavia, il percorso per ottenere il riconoscimento di questo diritto è stato travagliato: inizialmente, la ASL non riconosceva la dipendenza da trattamenti di sostegno vitale. Laura è stata costretta a ricorrere al tribunale civile, affrontando in tre anni due denunce, due diffide, un ricorso d’urgenza e un reclamo formale per vedere riconosciuto un diritto sancito dalla Corte Costituzionale. Solo nel 2024, quando le sue condizioni di salute erano ormai gravemente peggiorate, è arrivata la relazione medica che attestava il possesso di tutti i requisiti previsti dalla legge.
Nel frattempo, in Umbria è iniziata una raccolta firme, promossa dall’Associazione Luca Coscioni, di cui Laura era attivista, per proporre una legge regionale sul fine vita. In Italia, però, persiste un vuoto normativo che rende l’accesso al suicidio assistito un iter lungo, stressante e complesso per i malati. Uno Stato che lascia i propri cittadini prigionieri di un corpo che diventa un peso, anziché uno strumento per vivere, fallisce nella tutela della loro dignità. Sebbene il dibattito sul fine vita continui a essere oggetto di confronto etico, politico e sociale, i progressi verso il riconoscimento dell’autodeterminazione sono lenti. Negare il diritto di scegliere come morire condanna i malati a una prigionia nella sofferenza, anziché liberarli con una morte dignitosa.






