Maturità: rito di passaggio e specchio della società
- Ketty Gangemi
- 20 giu
- Tempo di lettura: 2 min
Ogni giugno ritorna al centro dell’attenzione pubblica l’Esame di Stato: tappa obbligatoria del percorso scolastico. Torna puntualmente, ma negli anni ha mutato alcune condizioni processuali e valutative. Sì, perché l’attuale “maturità” è profondamente diversa rispetto a quella di vent’anni fa. La sua evoluzione non è solo tecnica: riflette un cambiamento culturale, educativo e persino filosofico nel modo in cui pensiamo la scuola e la formazione delle nuove generazioni.

Fino a qualche tempo fa, le prove scritte dell’Esame di Stato erano tre, un colloquio orale spesso incalzante, commissari esterni, valutazione finale centrata quasi esclusivamente sul merito misurato in sede d’esame. La maturità rappresentava il momento in cui la scuola chiedeva conto degli anni di studio passati e del rigore. Si trattava, in fondo, di un passaggio molto più meritocratico: chi superava la prova, ci riusciva grazie al suo esclusivo sapere.
Negli ultimi anni, però, la filosofia alla base dell’esame è mutata. Al centro non vi è più solo il sapere, ma anche il saper fare e, soprattutto, il saper essere, in linea con le Raccomandazioni e le normative europee delle ultime Riforme del sistema scolastico relative alla didattica per competenze. Le prove scritte sono state ridotte, i crediti scolastici sono diventati essenziali (fino a 40 punti su 100), e la prova orale si è trasformata in una “performance” in cui lo studente è chiamato a dimostrare competenze trasversali, capacità di riflessione, di esposizione, e persino di autovalutazione. In questo senso, la maturità ha abbandonato il modello valutativo centrato sulla prestazione singola, per abbracciare una logica formativa e continuativa.
Dal punto di vista didattico, si tratta di un cambiamento coerente con la didattica delle competenze: meno contenuti, più collegamenti; meno nozioni, più strumenti per orientarsi. Tuttavia, questo nuovo paradigma non è di certo privo di rischi. I dati INVALSI degli ultimi anni hanno mostrato un calo sensibile nelle competenze fondamentali (in italiano, su tutte la comprensione del testo), e molti insegnanti segnalano un abbassamento significativo del livello medio di preparazione. Si rischia, dunque, che la valutazione della “maturità” diventi una sorta di rappresentazione, più che una verifica autentica del sapere e della comprensione.
Dal punto di vista filosofico, la variazione dell’esame riflette un’idea diversa di scuola: non più un luogo di crescita selettiva, ma spazio di accompagnamento; non più barriera d’ingresso alla vita adulta, ma trampolino formativo orientato alla prestazione lavorativa. È una visione più inclusiva, sicuramente, ma anche più esigente in termini di responsabilità. Se la scuola deve formare individui capaci di pensare autonomamente e criticamente agendo con consapevolezza, allora l’esame deve essere non solo meno punitivo, ma anche più serio e significativo.
Oggi non si misura più solo il sapere in quanto tale, ma anche il “come si è cresciuti”. È certamente un progresso che mira a garantire strumenti idonei e permanenti per la crescita. Ma perché ciò sia vero e meno meccanicistico, serve che il percorso scolastico, nel suo insieme, torni a rappresentare anzitutto uno spazio esigente, stimolante, autenticamente educativo.