Lo stupro omicidio dell'anima
- Antonietta Di Genova

- 18 nov
- Tempo di lettura: 4 min
Scrivo queste riflessioni a caldo, in qualità di avvocata che si occupa di donne e minori, all’indomani di un passaggio storico: il 13 novembre 2025 la Camera ha approvato la riforma dell’art. 609-bis c.p., introducendo finalmente nel nostro ordinamento la definizione dello stupro - da sempre terreno scivoloso e campo di battaglia dove la legge si è spesso piegata a un imperante cultura patriarcale - come rapporto sessuale senza consenso. Inizialmente catalogato come delitto contro la moralità pubblica - addirittura prevedeva il matrimonio riparatore, è d’obbligo un pensiero a figure rivoluzionarie come Artemisia Gentileschi, che in epoche buie per i diritti femminili hanno affrontato il processo rompendo silenzi secolari e pagando un prezzo altissimo - solo nel 1996 fu finalmente inserito nel titolo tra quelli contro la persona. Ma la mentalità non cambia con un tratto di penna. La vittimizzazione secondaria, nei processi per violenza, è stata diffusissima: domande umilianti come “eri bagnata?”, “avevi la mutandina?”, rivolte non solo dalle difese, ma anche dalle istituzioni.

È emblematico il caso della Cassazione che, in una storica sentenza, aveva ritenuto che una donna con i jeans non potesse essere stuprata. Ma è davvero così? È davvero l’abbigliamento a definire la volontà? Le domande sul vestito, sul comportamento, sulle scelte della vittima non sono dirimenti. Sono violenza nella violenza, la più sottile e brutale: quella istituzionale. Dal 2013, con la ratifica della Convenzione di Istanbul, le avvocate esperte in materia hanno combattuto – con determinazione e competenza – per affermare il concetto che è stupro tutto ciò che avviene senza consenso, esattamente come previsto dall’art. 36 della Convenzione.
Cosa cambia, oggi, con la riforma? Cambia tutto, se lo vogliamo. Il consenso deve essere libero e attuale. Significa che il consenso è libero quando è espresso in modo genuino, senza condizionamenti, né violenza, né artifici, e da una persona capace di intendere e volere. Una persona ad esempio sotto l’effetto di droga o alcool non può esprimere un consenso valido. E spesso, purtroppo, le sostanze vengono somministrate a sua insaputa – è il caso della cosiddetta “pillola dello stupro”, che trasforma una serata in un incubo silenzioso. Una donna così alterata ha diritto a essere rispettata senza se e senza ma, e no, non se l’è cercata: è reato approfittarsi del suo stato. Il consenso, poi, deve essere attuale, cioè persistente per tutta la durata del rapporto: tutto ciò che accade deve essere reciprocamente voluto. Si può dire sì e poi no. Si può cambiare idea per un ripensamento morale o etico, o perché si prova dolore – nel caso di un rapporto anale, ad esempio. E quando il consenso viene ritirato, tutto si ferma. No è no, sempre. Non è complesso, è umano. La situazione si complica ulteriormente nei rapporti sessuali che coinvolgono tre o più persone, dove il principio fondamentale rimane invariato: il consenso deve essere libero e attuale per tutta la durata dell’atto, e questa condizione deve essere chiara e condivisa da tutti i partecipanti al momento intimo condiviso.
È ormai assodato che questa visione, priva di moralismi e bigottismi, si fonda su un principio imprescindibile: il consenso libero è sempre e comunque revocabile; è un patto che non va mai disatteso nel rapporto sessuale. “Ma allora ci faremo firmare la liberatoria?”, ironizzano i soloni del patriarcato. “Serve la marca da bollo?”, “c’è un’inversione dell’onere della prova costituzionalmente illegittima”? La risposta è no, e ancora no. Come si dimostra il consenso? Con la stessa forza con cui oggi si dimostrano i maltrattamenti in famiglia e gli stupri: con la testimonianza della persona offesa, attendibile e circostanziata. Riguardo alla prova ricordo alle donne l’importanza di recarsi immediatamente in pronto soccorso per refertare le eventuali lesioni (a volte ahimè gravissime: abbiamo assistito a perdita dell’organo riproduttivo e lesioni intestinali) e far prelevare per la conservazione campioni di sperma o altro tipo di campione biologico da cui poi si potrà risalire al dna dell’aggressore. Anche il personale medico oggi è più esperto grazie alle linee guida del libro bianco, nonché del c.d. codice rosa.
La verità è che il problema non è giuridico, è culturale. La legge può mostrare la strada, ma la rivoluzione la deve fare la società. È un circolo virtuoso: serve educazione, rispetto, conoscenza del corpo, dei limiti e della libertà. È necessaria una rete tra istituzioni e società civile: scuola e famiglia in primis, perché altrimenti il primo approccio al sesso continuerà a essere la pornografia violenta, con tutto ciò che comporta in termini di percezione distorta della relazione, dei ruoli, dei confini. Ecco perché è necessario fornire ai nostri ragazzi educazione sessuale e affettiva, sin dai primi anni, e non mettergli in mano strumenti che non sono in grado di padroneggiare. Non si può dare uno smartphone a un bambino di 8 o 9 anni e poi stupirsi se arriva al porno prima dell’amore. WhatsApp è consentito dai 14 anni, come i social, ma lo sappiamo tutti come va. Tutto è collegato e parte dalla cultura: dalle nostre piccole domande di ogni giorno, dalle insinuazioni nei confronti delle donne su come si vestono e si comportano, ma soprattutto sulle loro abitudini sessuali. Perché tutto si perdona a una donna, tranne il fatto di vivere la propria sessualità al di fuori della procreazione. C’è sempre, latente o esplicita, una volontà di controllo uterino: sul corpo, sulle nascite, sugli aborti, sulla gravidanza. Oggi sento che stiamo vivendo un cambiamento epocale. Ne facciamo parte, tutte e tutti.
Questa riforma è il risultato della lotta femminista, della tenacia di chi ha creduto, e crede, che una società senza patriarcato sia una società più giusta, più democratica, più umana per tutti. Non arretreremo di un solo passo. Continueremo a lottare per un mondo dove ogni donna possa essere libera e rispettata.





