top of page

La donna non è più sola. Intervista all’avvocata Antonietta Di Genova

Entrare nel vivo delle violenze di genere significa anche addentrarsi in un mondo fatto di parole, gesti, leggi, processi e tanto altro. Di questi aspetti si occupa l’avvocata Antonietta Di Genova che, insieme all’associazione Non Sei Sola Battipaglia, si impegna nella tutela delle donne che hanno subito violenza. Oltre all’aspetto legale, c’è però anche quello culturale, un lato della “parità di genere” che è imprescindibile e sul quale bisogna lavorare a partire dalle scuole. Il 25 novembre è solo un giorno, ma l’attività prosegue tutti gli altri 365.

L’avvocata Antonietta Di Genova - Non Sei Sola Battipaglia
L’avvocata Antonietta Di Genova - Non Sei Sola Battipaglia

 

Come e perché è nata l'associazione Non Sei Sola Battipaglia?

 

L’associazione Non Sei Sola Battipaglia nasce nel 2012 come semplice sportello di ascolto, con l’obiettivo di sostenere le donne vittime di violenza attraverso una consulenza legale e psicologica gratuita, offrendo loro un primo punto di riferimento e attivando gli strumenti necessari per accompagnarle in un percorso di tutela e autodeterminazione.

 

Nel corso degli anni siamo cresciute ed evolute, diventando un’APS e iscrivendoci al RUNTS, così da poter partecipare ai bandi pubblici e ampliare le nostre attività. Accanto allo sportello di ascolto, infatti, abbiamo sviluppato un intenso lavoro di sensibilizzazione sui temi della parità di genere, della dignità femminile e dei diritti delle donne. Crediamo profondamente che la libertà di donne e bambine passi innanzitutto attraverso la cultura e la consapevolezza.

 

Oggi percepisco che siamo ancora in piena evoluzione: abbiamo accolto nel nostro percorso anche uomini che si riconoscono nei valori del femminismo, e nuovi cambiamenti sono già in atto, segno di un’associazione viva, inclusiva e sempre orientata al miglioramento.

 

Avvocato o avvocata e perché? 

 

Nomina sunt consequentia rerum. Per questo è importante usare il femminile per le professioni. Ciò che non si nomina non esiste — e non si tratta affatto di una battaglia ideologica, come qualche solone del patriarcato vorrebbe far credere, ma di una questione concreta e sostanziale.

 

Avete notato che il problema si pone solo per le professioni e i ruoli più prestigiosi? Quando una donna ricopre un incarico di responsabilità, improvvisamente il femminile “suona male”. Eppure ci viene detto che queste non sono le vere questioni di cui occuparsi. Io penso l’esatto contrario: un linguaggio rispettoso dei generi e realmente inclusivo è fondamentale, perché dà forma al modo in cui percepiamo la realtà. Il cosiddetto benaltrismo non ha mai fatto bene a nessuno.

 

E poi, chi ha stabilito che non ci si possa occupare di più cose insieme? Le femministe non si occupano “solo di lingua”: ci occupiamo di diritti. E tra questi c’è anche il mio diritto a essere chiamata al femminile.

 

Dunque, senza alcun dubbio: avvocata.

 

Come reagiscono colleghi alla desinenza femminile? E alla concorrenza di una donna?

 

La resistenza di una parte degli uomini all’ingresso delle donne negli spazi di potere è, ancora oggi, profondamente radicata e spesso assume forme di una violenza sottile ma costante. Le reazioni, a mio avviso, si dividono in due grandi categorie.

 

La prima è quella riflessiva: riguarda gli uomini alleati, gli uomini amici, che percorrono con noi la strada dei diritti e che comprendono perfettamente l’importanza di usare la desinenza femminile nelle professioni. Con loro si dialoga, si costruisce, si cresce insieme.

 

La seconda è una reazione ostile, che affonda le sue radici nell’inconscio collettivo. È qui che troviamo il mansplaining, le battutine “innocenti”, i commenti su come una donna giovane e bella abbia “davvero” raggiunto un certo ruolo, vinto un concorso o ottenuto un risultato. Si insinua il sospetto, si sminuisce il merito, si delegittima. In casi più estremi, si arriva a forme di aggressività ancora più evidenti.

 

Ma la forma più pervasiva rimane la violenza culturale, sottile, quella che si esprime attraverso stereotipi e pregiudizi che ancora oggi incontriamo quotidianamente. È meno appariscente, ma non per questo meno dannosa.

 

Ecco perché la battaglia sul linguaggio e sul riconoscimento professionale non è affatto marginale: è parte integrante della lotta per lo spazio, la dignità e il rispetto delle donne.

 

Qual è la parte più difficile del suo lavoro? 

 

La parte più difficile è ottenere una giustizia realmente celere ed effettiva. Nonostante le tutele previste dall’ordinamento, spesso le donne si ritrovano con un senso di vuoto, senza percepire una protezione concreta. È quello che definiamo vittimizzazione secondaria: la violenza istituzionale che si aggiunge a quella già subita, e che dipende dallo stato della giustizia ma non solo.

 

Faccio un esempio legato alla violenza economica. Se una sentenza stabilisce che un ex marito violento – e con ampie disponibilità – debba pagare il mantenimento, ma lui si sottrae utilizzando prestanome e artifici per risultare nullatenente, il risultato è che la donna resta senza tutela effettiva. Lo stesso accade per le condanne ex art. 570 o 570-bis c.p.[1]: sulla carta c’è un obbligo, nella pratica spesso è un diritto vuoto.

 

Per fare un parallelo: se una persona ha una pena in esecuzione a seguito di decreto penale di condanna e non paga la cartella emessa dall’Agenzia delle Entrate, uno degli effetti è l’impossibilità di ottenere il passaporto. Perché strumenti simili non potrebbero essere estesi anche a chi non versa il mantenimento? Oggi molti uomini violenti, sfruttando le maglie della legge, riescono a sottrarsi alle proprie responsabilità.

 

Ecco, la difficoltà più grande è questa: ottenere una soddisfazione concreta per le donne. Una sentenza non deve servire per essere incorniciata, ma per cambiare la vita quotidiana delle persone. E quando il recupero del credito, magari con un pignoramento immobiliare, richiede anni, è inevitabile che emergano frustrazione e scoraggiamento.

 

Per questo credo sia indispensabile proporre riforme che rendano la giustizia davvero effettiva, capace di proteggere le persone nei fatti, non solo nelle carte

 

Come può essere potenziato il codice rosso?

 

Con due elementi fondamentali: risorse e coraggio.

 

Le riforme del diritto penale “a costo zero” non hanno mai funzionato. Per rendere efficace il Codice Rosso servono investimenti reali: più personale, più formazione specializzata, più strumenti tecnologici e una rete territoriale capace di intervenire tempestivamente. Senza soldi, qualsiasi legge resta un guscio vuoto.

 

Serve poi il coraggio di applicare le misure cautelari con maggiore decisione. La tutela immediata della vittima deve essere sempre la priorità. Penso, ad esempio, al braccialetto elettronico: è una misura non invasiva, ma estremamente utile se impiegata correttamente. Tuttavia deve essere verificato prima del collocamento e sottoposto a controlli periodici, perché uno strumento inefficiente o mal funzionante non protegge nessuno.

 

Potenziamento significa questo: dotare il sistema degli strumenti necessari e usarli con determinazione, affinché la protezione non sia solo dichiarata, ma reale.

 

Tra gli strumenti previsti dal Codice Rosso c’è il C.A.V. . Può parlarcene?

 

Il CAV, acronimo di Centro Antiviolenza, è una struttura riconosciuta a livello regionale e sostenuta da fondi pubblici, pensata e gestita da donne per accogliere e supportare altre donne che subiscono violenza. È un luogo sicuro in cui le vittime possono trovare ascolto qualificato, tutela legale, supporto psicologico, accompagnamento nei percorsi di fuoriuscita dalla violenza e, quando necessario, un rifugio protetto.

 

Perché la modifica all'articolo 609-bis del c.p. è stata definita una svolta epocale? 

 

Perché rappresenta il compimento di un’attesa lunga anni: sin dalla ratifica della Convenzione di Istanbul nel 2013 si auspicava un cambiamento che finalmente mettesse al centro il consenso e non più il comportamento della vittima.

 

Questa riforma segna una svolta epocale perché offre uno strumento concreto per contrastare l’odiosa vittimizzazione secondaria, quella per cui le donne venivano sottoposte a domande umilianti e irrilevanti: “Eri ubriaca? Come eri vestita? Avevi bevuto?”.Se una donna è in stato di alterazione, è evidente che non può aver espresso un consenso libero. E questo dovrebbe bastare.

 

I soloni del patriarcato possono continuare a ironizzare, ma questa riforma segna un momento storico: corregge storture profonde che per troppo tempo hanno distorto la percezione pubblica e giudiziaria di un crimine gravissimo, che definirei un vero e proprio omicidio dell’anima.

 

Finalmente si afferma un principio semplice e rivoluzionario: senza consenso, è violenza.

[1] In materia di violazione degli obblighi di assistenza familiare, in generale (570) e in caso di separazione o scioglimento del matrimonio (570-bis)

© RIPRODUZIONE RISERVATA

  • Instagram
  • Facebook
bottom of page