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La carestia che il mondo non vede

La carestia a Gaza non è più un’ombra che incombe, ma una realtà che divora sempre più vite. Le tre soglie che ne sanciscono l’esistenza – la privazione estrema di cibo, la malnutrizione acuta, la morte per fame – sono state tutte oltrepassate. Lo certifica l’Integrated Food Security Phase Classification (IPC), il sistema internazionale che misura la gravità dell’insicurezza alimentare: già mezzo milione di persone sono intrappolate nella fame. Il rapporto dell’World Food Programme conferma lo scenario: entro settembre più di 640.000 persone saranno esposte ai livelli più alti di insicurezza alimentare, mentre oltre un milione vivrà in emergenza e centinaia di migliaia in condizioni di crisi. Dichiarare una carestia non è atto leggero. Dal 2004, anno di nascita dell’IPC, questa parola è stata pronunciata solo tre volte: in Somalia nel 2011; in Sud Sudan nel 2017; Sudan nel 2023. In Somalia, oltre 100.000 persone morirono prima ancora che la comunità internazionale trovasse il coraggio di usare quel termine. 

Ashraf Amra, CC BY-SA 3.0 IGO, via Wikimedia Commons
Ashraf Amra, CC BY-SA 3.0 IGO, via Wikimedia Commons

Ora Gaza si aggiunge a quella lista, con l’aggravante di un assedio che ostacola sistematicamente l’accesso agli aiuti. Una tragedia silenziosa, che si consuma sotto gli occhi del mondo, mentre la popolazione è costretta a scegliere ogni giorno se morire di fame o sotto le bombe.

 

In quasi due anni di conflitto, sfollamenti ripetuti, blocchi agli aiuti umanitari e il crollo dei sistemi sanitari e di approvvigionamento hanno spinto una popolazione già fragile verso la fame. Le testimonianze raccolte parlano di genitori che saltano i pasti per far mangiare i figli e di famiglie che rimangono senza cibo per giorni interi.

 

Una catastrofe evitabile, ma voluta da Israele, che già prima del 7 ottobre imponeva restrizioni alle merci in entrata nella Striscia di Gaza, restrizioni divenute soffocanti dopo l’inizio della guerra. Infine, da marzo 2025, la situazione è rapidamente peggiorata dopo che Israele ha introdotto un blocco totale quasi di tre mesi sulle merci dirette a Gaza per fare pressione su Hamas e sulla liberazione degli ostaggi.

 

Sotto la pressione crescente della comunità internazionale, a fine maggio Israele ha riaperto a fatica uno spiraglio: una quantità limitata di beni è tornata a entrare a Gaza. Ma non sotto l’egida delle Nazioni Unite, accusate adi collusione con Hamas. Al loro posto, un nuovo sistema di distribuzione, affidato a un controverso gruppo statunitense, la Gaza Humanitarian Foundation (GHF), collocati in zone militarizzate a nord di Gaza. Per raggiungerli, i palestinesi devono camminare chilometri, attraversare macerie e varcare linee di fuoco. Così, procurarsi del cibo è diventata un’impresa mortale: ci sono numerose immagini che documentano sparatorie contro le persone che cercano di ottenere aiuti nei centri della GHF.

 

Eppure, a queste evidenze drammatiche, fa da contraltare la narrativa israeliana, che nega la carestia e parla piuttosto di una “costruzione propagandistica di Hamas”. Più volte il primo ministro Benjamin Netanyahu e ministri della destra ultranazionalista hanno sostenuto che i gazawi non soffrono la fame e che gli aiuti umanitari dovrebbero essere bloccati per non rafforzare il nemico.

 

Secondo quanto riportato dal quotidiano israeliano  Haaretz, la battaglia di disinformazione su Gaza non si gioca soltanto sul terreno, ma anche negli spazi immateriali dei social network. Il Ministero degli Esteri israeliano ha stanziato decine di migliaia di dollari per portare influencer statunitensi e israeliani nella Striscia, attraverso Israel365, un’organizzazione pro-insediamenti sionista, cristiana.


Il cast di questa campagna digitale è fatto di volti e follower più che di competenze: il sedicenne druso israeliano Marwan Jaber, con quasi 250mila follower su Instagram; l’americano ebreo Jeremy Abramson, trasferitosi in Israele, con oltre 450mila; l’avvocata della destra statunitense Brooke Goldstein, seguita da circa 150mila utenti tra Facebook, X e Instagram; accanto a loro gli israeliani Shiraz Shukrun e David Mayofis.

 

I contenuti diffusi sono frammenti di una realtà parziale: container ordinati, scorte alimentari ammassate, senza che sia mai chiaro se le immagini provengano davvero da Gaza. In uno dei video, Marwan Jaber conversa in arabo con un ebreo siriano: un artificio linguistico che sembra pensato per destabilizzare l’opinione pubblica internazionale, pronta ad associare l’arabo al palestinese, dimenticando le molteplici identità del Medio Oriente.

 

Il messaggio è sempre lo stesso: attribuire i morti durante le distribuzioni a militanti di Hamas o descrivere gli aiuti umanitari come strumenti di finanziamento del terrorismo. Così si costruisce una narrazione alternativa, in cui Israele appare non come responsabile dell’assedio, ma come difensore dei bambini e salvatore di vite.

 

Abbiamo dunque davanti una raffinata operazione di propaganda digitale: immagini e parole che cercano di piegare la percezione collettiva, mentre a Gaza la carestia avanza silenziosa, testimoniata dai corpi e dalle voci di chi la vive. Una tragedia che si consuma a pochi passi da terre fertili e prosperose, ma resta in gran parte invisibile, perché gli occhi del mondo, della stampa internazionale, non possono posarsi dove il dolore accade, lasciando a Israele la possibilità di mostrarsi al contempo come antidoto e veleno del futuro di Gaza.

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