In memoria di Sabra e Shatila
- Silvano D’Alessandro

- 16 set
- Tempo di lettura: 1 min
Tra il 16 e il 18 settembre 1982, nei campi profughi di Sabra e Shatila, si consumò un massacro che resta una delle più grandi infamie della storia contemporanea. Migliaia di civili palestinesi e libanesi, donne, bambini, anziani, furono sterminati dalle milizie falangiste. Ma non agirono da sole: l’esercito israeliano aveva circondato i campi, impedito ogni fuga, illuminato le notti con i razzi. A guidare quell’operazione vi era Ariel Sharon, allora Ministro della Difesa, colui che la stessa Commissione israeliana riconobbe “responsabile” del massacro. Sharon aprì le porte ai carnefici e rimase a guardare.
Non fu un eccesso, non fu una fatalità: fu una scelta politica e militare. Fu la pianificazione fredda di un crimine, in cui la vita dei profughi palestinesi venne considerata sacrificabile, eliminabile, insignificante. La “bestia nera” di Beirut aveva un nome e un volto, e nessun tribunale lo ha mai processato. Anzi, Sharon divenne Primo Ministro di Israele: una dimostrazione crudele di come il mondo premia gli autori di crimini di guerra invece di punirli.
Sabra e Shatila sono ferite che bruciano ancora, memoria viva che accusa non solo i carnefici, ma anche i complici e i silenzi della comunità internazionale. Ricordarli significa denunciare l’impunità, rifiutare l’oblio e gridare che i popoli oppressi non dimenticano.
Finché la giustizia resterà negata, le notti di Beirut continueranno a perseguitare la coscienza dell’umanità.






