In Conclave a guardare Star Wars
- Roberto I.
- 7 mag
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La mattina di martedì 7 maggio, con l’ingresso dei cardinali nella Cappella Sistina e la formula "Extra omnes", si apre ufficialmente il Conclave per l’elezione del nuovo papa.
Questa è una delle scene più cariche di simbolismo della tradizione cattolica: porte che si chiudono, silenzio che cala, e un gruppo "ristretto" di uomini chiamato a scegliere il prossimo successore di Pietro. Neanche troppo ristretto. Ma vabbè, altra storia.
È un momento che unisce il cerimoniale al mistero, e che sembra esistere più per essere vissuto — e visto — che per uno scopo pratico immediato, come tanti altri momenti di cui si è sentito in TV recentemente, ma come anche tanti momenti che un praticante vive ogni volta che partecipa a una funzione.
A volte ci si può chiedere - e sarebbe legittimo, anzi doveroso farlo per esercitare il pensiero critico - perché si faccia così tanto caso a certe pratiche. C’è un aspetto che permea ogni rituale religioso, oltre alle motivazioni che storicamente hanno portato al concepimento e alla codifica del rituale stesso: hanno valore non solo per quello che fanno (spesso quasi niente di tangibile), ma anche e soprattutto per quello che rappresentano.
E a ben guardare, un Conclave non è poi così diverso dall’inizio di una partita importante, quando i tifosi alzano le sciarpe e cantano l’inno della squadra, o da una première cinematografica in cui i fan di Harry Potter sventolano bacchette magiche. In tutti questi casi si tratta di comportamenti codificati, ripetuti e condivisi che segnano l’ingresso in uno spazio "altro", separato dalla quotidianità. In una parola: rituale.

La religione e I suoi gesti
Come ricordava l’antropologo Ernesto De Martino, i riti aiutano a contenere l’angoscia nei momenti di discontinuità della vita: la morte, la nascita, la crisi. Sono azioni che danno forma e ordine all’esperienza collettiva. Quando qualcosa cambia — come la fine di un pontificato — il rituale serve a rendere quel cambiamento comprensibile, tollerabile, condivisibile.
L’assenza di uno scopo pratico diretto non rende questi gesti inutili. Al contrario: secondo il sociologo George Homans, proprio l’assenza di un effetto materiale misurabile è ciò che rende un atto "rituale". La danza della pioggia non porta la pioggia, ma unisce chi la esegue. L’ostia consacrata non cambia chimicamente, ma cambia simbolicamente per chi crede.
Ma anche i nerd hanno i loro riti
Ciò che vale per la religione, però, vale anche per altri ambiti della vita collettiva. Basta pensare a un’altra "fede" che muove le masse: lo sport. Anche lì, ci sono riti d'ingresso (la prima partita allo stadio), momenti di transizione (il cambio di allenatore o il ritiro di una bandiera), e perfino liturgie collettive (cori, gesti scaramantici, codici non scritti). E lo stesso vale per le comunità nerd: la maratona di tutti i film del Marvel Cinematic Universe prima dell’uscita dell’ultimo capitolo, i costumi da cosplay alle fiere, le code notturne per l’ultimo volume di una saga.
Sono riti laici, sì, ma potentissimi. Creano identità, rafforzano i legami, costruiscono un "noi". E, come in ogni rito, spesso la forma conta più del contenuto: non importa che tu sappia tutto su Luke Skywalker o su Gandalf, importa esserci, partecipare, condividere l’esperienza.
Perché i rituali ci servono?
Secondo ricerche recenti, le società che affrontano crisi più frequenti tendono a sviluppare rituali più rigidi e diffusi. I rituali aiutano a gestire l’incertezza, a creare coesione, a costruire fiducia. Lo abbiamo visto anche durante la pandemia: lavarsi le mani, mantenere le distanze, applaudire dai balconi — erano comportamenti prescritti, ma anche rituali collettivi, capaci di dare un senso a una situazione nuova e spaventosa.
Lo stesso Émile Durkheim, sociologo e pioniere nello studio delle religioni, vedeva nei riti il cuore pulsante di ogni collettività. Per lui, il sacro non era necessariamente legato al divino, ma a tutto ciò che viene separato dalla vita quotidiana e investito di significato condiviso. Anche una maglia, un inno, una sigla d’apertura possono diventare "sacri", se servono a unire le persone.
Anche chi non crede ha bisogno di riti
Molti atei o agnostici potrebbero pensare di non avere bisogno della ritualità. Eppure, cerimonie come matrimoni, funerali, compleanni o celebrazioni di gruppo mostrano quanto profondo sia il desiderio umano di marcare i passaggi importanti della vita con gesti collettivi. E spesso, per farlo, si attinge comunque a forme estetiche e simboliche che derivano dalla tradizione: fiori, candele, abiti speciali, formule ripetute.
Come ha scritto la giornalista Suzanne Moore, il rito crea uno spazio separato dalla quotidianità. Lo si può chiamare "sacro", oppure "magico", oppure semplicemente "speciale". E serve proprio a questo: a ricordarci che non siamo soli, e che, almeno per un momento, stiamo vivendo qualcosa insieme.