L’uomo è un animale singolarmente razionale, ma anche singolarmente irrazionale, e i suoi disturbi emotivi o psicologici sono il prodotto dei suoi pensieri illogici e irrazionali. Egli può liberarsi di quasi tutti i suoi disturbi, infelicità e inefficienza emotivi e mentali se impara a massimizzare i suoi pensieri razionali e minimizzare quelli irrazionali.
Albert Ellis
Christine, Lorenzo e le doverizzazioni
In una piacevole sera di autunno, Christine e il suo amico, Lorenzo, si incontrano in un pub. Neppure il tempo di occupare un tavolino e ordine le birre e Lorenzo inizia una delle sue filippiche su quanto la vita sia orribile e di quanto questo mondo faccia schifo. «Le cose non sono mai come devono. Va tutto storto, tutto in malora» si lagna Lorenzo e prosegue mettendo alla sbarra chiunque: gli amici, il capo, persino la sua compagna di una vita. «Non mi capisce, non fa che sottovalutarmi, mi tratta come uno zerbino. Mi sento mancato di rispetto, senza prendere in considerazione minimamente i miei bisogni.» E lì a buttar giù tutta la rabbia, la frustrazione e a vagheggiare desideri di fuga, piani ambiziosi su come allontanare tutti dalla sua vita. «Esclusi i presenti, s’intende!» conclude rivolgendosi a Christine.
Finalmente, arrivano le birre e, in un momento di pausa da parte di Lorenzo, Christine osserva: «Be’, Lory, non sempre la vita è come vorremmo che fosse. A volte bisogna prenderla come viene.» Ma Lorenzo beve, deglutisce, la guarda di sbieco e chiede indispettito: «Ah sì? E non trovi che invece debba essere più confortevole, la vita? O che quanto meno gli amici debbano sapertela rendertela meno odiosa? Gli amici!» esclama con amara ironia, «se di amici possiamo parlare. Dovrebbero proprio imparare a comportarsi come tali e, se davvero tangono a me, domandarmi di tanto in tanto: “ehi, Lorenzo, che c’è che non va? Insomma non merito amore, considerazione? Eppure faccio del mio meglio. Devo fare del mio meglio! Mi impegno a essere all’altezza delle aspettative, a casa, in famiglia, in ufficio.» Sospira sconsolato e quasi tra sé: «Devo fare sempre tutto io per loro, devo essere sempre e solo io a capirli. Devo evitare errori, devo essere eccellente nel lavoro, devo comportarmi da compagno comprensivo, deve, devo…, devo» conclude con un rantolo.
«Bè, sull’ultima cosa, non sei affatto in errore» interviene Christine con un sorriso. Poi riprende seria: «Ma non solo perché “tu devi”. Non nel senso in cui lo intendi almeno. E forse è proprio qui il punto. Quanto ti possono far bene tutti questi “devo”?»
«Cosa intendi?» chiede Lorenzo. E Christine inizia a raccontargli di quanto anche lei in passato era convinta di dover essere perfetta, compiacere gli altri, in modo che l’apprezzassero. Dovevano apprezzarla, capirla, amarla. «Ogni volta che avevo in mente un obiettivo, lo caricavo di dovere, di pretesa verso me stessa, gli altri e le condizioni della vita. Gli standard su come dovevo comportarmi erano rigidi, e così anche per gli altri: stabilivo io cosa dovevano pensare o fare. E se così non era, perché nella maggior parte dei casi le persone non si comportano secondo le nostre aspettative, diventavo rabbiosa e aggressiva.»
Christine finisce la sua birra e continua: «Finché mi sono resa conto che non è un dogma il fatto che un adulto debba necessariamente essere amato e compreso, o che la vita debba andare secondo i nostri desideri. “Quando è così, mi sono detta, cerca tu di migliorare gli eventi, Chri’, ma se sul momento non è possibile, l’unica cosa sensata che puoi fare è accettarli, aspettare e fare piani per quando arrivi il momento opportuno. Se una situazione genera perdite e frustrazioni, accetta con maggiore convinzione che è sgradita e cattiva, ma non catastrofica, né terribile, né insopportabile”.»
Ciò di cui sta parlando Christine sono le doverizzazione: aspetti rigidi delle nostre credenze e convinzioni che condizionano la nostra vita e alimentano più del necessario ansie, frustrazioni, rabbia, senso di inadeguatezza e rendono ciò che desideriamo irrealizzabile e i nostri obiettivi irraggiungibili. Sono di tre tipi:
Verso se stessi: devo avere successo nella maggior parte delle mie azioni e relazioni: altrimenti sono del tutto inadeguato e inutile! Risultato: ansietà, depressione, disperazione, inutilità. Atti di fuga, rinuncia, abbandono, dipendenza.
Verso gli altri: la gente deve trattarmi con considerazione, giustizia, rispetto e amabilità: altrimenti, non è così buona come dice e non merita di raggiungere la felicità durante la vita. Risultato: sentimenti di ira, rabbia, risentimento. Atti di lotta, inimicizia, violenza, guerre, genocidi.
Verso la vita: le condizioni in cui vivo devono essere confortevoli, piacevoli e di pregio: altrimenti sarà orribile, non lo sopporterò e tutto questo maledetto mondo sarà uno schifo! Risultato: sentimenti di autocommiserazione, ira e bassa tolleranza alla frustrazione. Atti di abbandono, lamentela continua e dipendenze.
Il modello ABC della REBT
È stato lo psicologo statunitense, Albert Ellis a tematizzare le doverizzazioni all’interno della REBT (Terapia Razionale Emotiva Comportamentale) presentata, per la prima volta, nel 1961 al convegno dell’American Psychological Association. Una terapia cognitivo-comportamentale basata sull’idea che emozioni e comportamenti siano il prodotto delle convinzioni di un individuo e della sua interpretazione della realtà.
La meta principale consiste nell’assistere il paziente nell’identificazione dei suoi pensieri irrazionali e dei disturbi, aiutarlo a rimpiazzare tali pensieri con altri più “razionali” o reali, che gli permettano di raggiungere con più efficacia obiettivi di tipo personale, quali essere felice, stabilire relazioni con altre persone, ecc…
Il modello ABC della REBT funziona nel seguente modo: di fronte ad una determinata situazione o “Evento Attivante” (A), le “Conseguenze Comportamentali” (C) che la persona produce e che possono essere emozionali (Ce) o comportamentali (Cc), sono determinate dalle sue convinzioni, “Believes” in inglese (B). Da qui ABC: non ci può essere A e poi direttamente C se non attraverso B. Le convinzioni B possono essere razionali (rB) o irrazionali (iB), dando luogo a loro volta a conseguenze (C) razionali (adeguate, funzionali) o irrazionali (inadatte, inefficaci).
Secondo la REBT, poiché non sempre A dipende da noi, bisogna intervenire e cambiare le iB per trasformarle in rB: è l’unico modo affinché le conseguenze (C) che ne derivano siano funzionali. Il modo per ottenerlo è attraverso la “confutazione” o il “dibattito” (D): mettere cioè in discussione le convinzioni irrazionali (iB) disfattiste sia rispetto a se stesse che nei confronti della società e agendo sia a livello cognitivo, sia emotivo che comportamentale. Bisogna capire la fonte del nostro modo di pensare, da quali esperienze deriva. In che modo adottarlo mi ha aiutato nel corso dell'infanzia? E chiedersi ancora: quali prove posso trovare a sostegno della sua validità? Infine adottare nuovi elementi (E), cioè un nuovo punto di vista, una nuova filosofia di vita: qual è l’interpretazione più adeguata e funzionale?
La filosofia di base alla REBT
Filosoficamente, la REBT si riallaccia a correnti antiche: la filosofia orientale, con Buddha e Confucio, che afferma “Cambia il tuo atteggiamento e potrai cambiare te stesso”, e quella dei filosofi greci e romani come Epitteto e Marco Aurelio, che evidenziarono l’importanza della filosofia individuale nel disturbo emozionale.
L’influsso dei filosofi stoici è stato determinante per l’elaborazione della REBT. Entrambe sottolineano come ci sia un legame tra pensiero ed emozione. Per Epitteto, «non sono i fatti in sé che turbano gli uomini, ma i giudizi che gli uomini formulano sui fatti». Questo però non significa cedere all’idea che tanto lo stoicismo quanto la terapia razionale-emotiva siano forme di razionalismo puro. Ellis conia il termine “razionale” ben cosciente del fatto che l’obiettivo primario della terapia è quello di modificare le emozioni che non esistono come cose in sé, scollegate dall’ideazione e per questo possono essere controllate in modo efficace soltanto mediante i processi di pensiero.
Nell’epoca ellenistica e romana il termine “filosofia” non designa una teoria o una maniera di conoscere, ma una saggezza, una sapienza vissuta, una maniera di vivere secondo ragione. La preminenza nello stoicismo dei processi di pensiero, dell’aspetto razionale, sui moti e gli stati dell’animo, deriva dalla precisa convinzione che la fonte di ogni turbamento interiore risiede nell’“interiore valutazione” o “giudizio” che l’individuo dà degli eventi del mondo. Come scrive Marco Aurelio:
«Le cose esteriori non giungono mai a toccare l’animo nostro, ma restano sempre immobili al di fuori, e ogni turbamento dipende dall’interiore valutazione.»
Se certe cose non risultassero in un certo modo, in seguito alle valutazioni che noi elaboriamo del significato degli eventi, non intraprenderemmo certe azioni. Mentre Epitteto nel suo Manuale osserva:
«Quando uno ti irrita, sappi che è la tua opinione che ti ha irritato. Come prima cosa cerca quindi di non lasciarti trascinare subito dalle rappresentazioni.»
Per cui dietro ogni azione, sia interiore che sociale, c’è un giudizio. Valutare le qualità di una persona come eccellenti risveglia in noi un senso di ammirazione. Una situazione che la mente valuta come minacciosa innesca la paura. Valutare un’esperienza, alla quale abbiamo dedicato molte energie, come un fallimento genera un senso di scoraggiamento da cui possono scaturire una svalutazione delle nostre capacità e una diminuzione di autostima. I vissuti emotivi non sono meri impulsi irrazionali e incomprensibili che ci trascinano, ma hanno una “sostanza cognitiva”: cioè sono strettamente connessi alle nostre convinzioni fondamentali, alle convinzioni etiche che definiscono cosa ha importanza e cosa non l’ha. Pertanto, emozioni, sentimenti, tonalità emotive, passioni sono irrazionali solo se fondate su convinzioni false e ingiustificate.
In questo senso, allora, è possibile modificare la nostra dimensione affettiva, lavorando sulle nostre cognizioni, convinzioni, atti valutativi. Capire con sguardo vigile su quali teorie poggiano, quali implicazioni hanno sulla qualità della nostra vita. Un impegno che per essere efficace necessità di continuità, perseveranza, onestà e radicalità nell’analisi.
Dai devo ai vorrei: il gioco della sostituzione
«Proviamo a fare un gioco» suggerisce Christine mentre con Lorenzo esce dal locale. «Riflettiamo su quali sono le situazioni in cui emergono tutti questi “devo” e proviamo a sostituirli mentalmente con dei “vorrei”»
«A che pro?» chiede Lorenzo incuriosito.
«Bè, se i "devo" ci rendono ansiosi o arrabbiati, i "vorrei" mettono meno ansia, almeno dovrebbero: sono più adatti alla (sana) imperfezione che riscontriamo quotidianamente in noi stessi, nelle persone e nelle cose.»
Non devo, ma vorrei fare sempre tutto per gli altri;
Non devo, ma vorrei sempre finire i lavori a fine giornata;
Non devo, ma vorrei evitare di fare errori;
Non devo, ma vorrei fare in fretta;
Non devono, ma vorrei che mi trattassero bene;
Non devono, ma vorrei che mi ascoltassero di più;
Continua tu…
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